mercoledì 21 dicembre 2011

il Prodigio minimo di oggi














Rammenta Plinio nella sua Storia Naturale che a Roma il 21 Dicembre era giorno consacrato alla Dea Angerona, divinità tutelare uguagliata a Venere stessa, mai menzionata nei carmi dei Salii, poiché non aveva nome proprio nella lingua latina e nei tempi arcaici invocata sotto i nomi di Volupia, Ope, Angerona quali simboli della multiforme, invisibile essenza operante nel grembo della natura creatrice.
Non si può non notare nella mattinata di oggi la rara limpidezza del cielo su Roma, in cui è assente la mortifera opacità indotta dal rilascio in quota dei filamentosi particolati sintetici ad opera di aerei non ben identificati.
Lo splendore felice di queste ore che hanno cadenzato il trascorrere della mattinata, da considerare puramente Augurale, è il provvidenziale segno che determinati prestigi non sono del tutto dissolti.
Oggi 21 Dicembre, questo “prodigio irrilevante” avverte gli animi più preparati ad accogliere un senso maggiormente elevato della vita nell’attuale smarrimento dei tempi, infondendo una veritiera speranza circa la loro sorte.
Ringrazio il Nume tutelare per il senso aureo di cui adesso il giorno sembra essere intessuto.








.

giovedì 8 dicembre 2011

essere italico























Questo diario virtuale costituisce una testimonianza.
La testimonianza di un’amorevole inclinazione offuscata dall’impronta aridamente razionalista della presente Età.
Non si tratta di affermare una qualsiasi abilità, sarebbe indegno, ridicolo.
Esprimo solo un’attitudine affine al senso artigianale della realizzazione interiore che dovrebbe essere propria alla vita dell’uomo.
Anelo al risveglio del Genio Italico-Latino, che sento essere latente in me come traccia melodica guida delle più profonde suggestioni dell’animo, riguardante la medesima grandezza espressiva del caritatevole tremore dipinto sulle rocce della Val Camonica, sui muri pompeiani, così come nelle pitture paleocristiane e nelle abbazie medievali.
Tremore dipinto attraverso le stagioni delle grandi idee liriche coralmente costruite con ragionata e concreta immediatezza realizzativa, in grado di conferire alla composizione scenica una dilatazione capace d’avvolgere la coscienza dentro l’incantesimo che è uno fra i più necessari e reconditi sprigionati dalla vita per infondere la maggior verità di se stessa a se stessa.
La medesima prerogativa è patrimonio d’ogni espressione tradizionale, ogni popolo ha i suoi prestigi irrimediabilmente corrosi dall’attuale marea moderna.
Ogni uomo è seme di prodigi possibili, noi svigoriti e disincantati non prestiamo fede a questa verità.
Non prestiamo fiducia al senso più autentico del Culto (ad esempio la Chiesa che ha rinnegato la verità evocativa del canto Gregoriano dissolto con nenie melliflue e intorpidenti la necessaria tensione liturgica).

Ogni uomo è simbolo del più profondo enigma affacciato alla vita del Cosmo e partecipe di un immenso, invisibile, Gioco universale fluente attraverso le nascite e le dipartite dalla vita fisica, dove la materia stessa è l’ancestrale supporto magico dei dominii rivelati e occulti propri ad ogni grado delle gerarchie che vi operano.
L’immensa dispersione energetica che caratterizza l’imminente transito epocale, è direttamente legata al sovvertimento sintetico in atto e che mira a predare l’anima del mondo attraverso il dominio delle nostre stesse suggestioni.
Le suggestioni sono le radici dell’anima.
La domanda essenziale è cosa resterà dell’uomo.

Non in altre modalità lo spirito potrà ottenere rifugio se non attraverso un suo ripiegamento nell’interiorità offertaci dal presente involucro fisico: involucro enigmatico, oggi assolutamente svigorito dall’attuale età della sola tecnica, l'età dell'estrema manipolazione psichica; una manipolazione globalmente perseguita.

Quale deve essere la mia reazione? E' necessario che io reagisca in quanto la mia reazione partecipa di altre già avviate e potrà informare altre ancora ispirate al medesimo senso in quanto ogni cosa è intrecciata ad un altra per mezzo di un sacro filo che da sempre unisce il risveglio delle anime; anche in questi tempi di torpore audio-visivo elettromagneticamente indotto.

“Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene, suscettiva poi di zampillare sempre in su, qualora tu proceda (devotamente) in questo lavoro di scavo”.
Così Marco Aurelio esorta se stesso nei Colloqui: VIII, 58.

Scavare in noi stessi per scoprire quanto di superiore e divino la nostra natura possiede e procedere per chiare ispirazioni, continuamente invocate e che recano in sé le forme, i sigilli aurei di un’arte umana quanto divina.

Roma è la mia Dèa, una Dèa oltraggiata già ai tempi dei Cesari.La Roma prima di Roma. Penso ad una chiara infinità posta sopra il Palatino, cinto dal fiume sacro che è d’oro al sole e argento lucente sotto la quieta Luna. Qui sognano commossi Auguri e Re-sacerdoti estatici, con un segno della mano tracciato nell’aria creano l’orizzonte e l’identità lirica dell’universo.

domenica 27 novembre 2011

Intima direzione
















Civiltà non è soltanto manifestazione di attività prevalentemente intellettuali, ma espressione multiforme e positiva di tutte le tensioni spirituali.
Non è brutale dominio dell’uomo sulla natura esteriore, piegata e alterata ai fini di un ingannevole vantaggio materiale, ma sopra ogni cosa Civiltà è perfetta signoria dell’Uomo sulla propria natura umana, è preordinamento sensibile, ispirato dal senso di gradazioni trascendenti quali emanazioni dello Spirito Divino; di ciò che infonde nell’uomo l’accrescimento delle sue qualità positive, di ciò che rivela la natura del dàimon.
Pertanto Civiltà non è un assetto dogmatico e meno che mai insieme lineare di dati di fatto privi di anima, indistinta espansione di energie fisiche o intellettuali ridotte a sola logica di mercato.
Ogni Civiltà tradizionale al momento della sua più significativa fioritura seppe accordare il senso dell’opera al radioso principio irrazionale che regge la vita universale.
Lo spirito nel suo inverarsi è soggetto a limitazioni assolutamente coincidenti all’idea di destino.

La somma di espansioni umane propriamente civili, degli sforzi delle singole volontà coralmente accordate innalzarono su enigmatici basamenti pietrosi templi perfetti, allineati alla corsa degli astri.
Gli antenati operarono adempiendo una fatale necessità, che intesero essere ispirata, infusa, nei loro cuori dalla maggiore coscienza che presiede alla nascita del Cosmo.
Dico dell’elemento essenziale, del principio creatore impossibile a definirsi se non attraverso la risonanza poetica, nessun indagine storica o archeologica razionalmente pianificate potranno mai comprendere nelle sedimentazioni calcificate di ossa e crani un tempo viventi il brivido trascendente che ne pervase il corpo, il senso della meraviglia che illuminò pupille ora dissolte, lo stupore commosso di un prodigio augurale.

Intendo il senso di una segreta forza interiore, unica vera ricchezza umana che possiamo ancora percepire seppur debolmente per mezzo della nostra sensibilità profonda, una luce fioca posta nel luogo più remoto della nostra qualità sensibile e che definisco come la pura preveggenza della sensibilità sensitiva.
Qualcosa che ravviva la nostalgia, il ricordo intuitivo per il misterioso ideale, l'accordo lirico coincidente al coro che gli Argonauti intonarono nel tempo della loro spedizione.
Un canto capace di ridestare la meraviglia negli stessi Dèi e infondere ulteriore luce alla vastità universale. L’allegoria racchiude l’eminente verità.

Molteplici ombre si sovrappongono davanti al nostro sguardo costringendoci ad una visione spenta delle circostanze esistenziali.
Fervori lugubri hanno progressivamente guastato l’intelletto e l’attitudine al fare per realizzare degradata in una deformità tecnologico-razionale che progressivamente dissecca le nostre radici spirituali.
Il loro nutrimento affonda nella positiva, metastorica, forza enigmatica in grado di ridestare la più alta delle vitalità alla coscienza - intelligenza d’amorosi sensi - rendendoci interiormente robusti e liberi.
Questa rissa selvaggia consumata ogni giorno nelle nostre menti ci sfibra intimamente ed è il nucleo oscuro della fragilità strutturale di noi moderni, prevalentemente condizionati dalla realtà industriale.
Non comprendiamo più l’azione deleteria ad opera di negatività coscienti, addensate su differenti piani dimensionali affatto separati dal nostro e permettiamo che queste ci vampirizzino quotidianamente.

E' inutile standardizzare le misure della vita materiale senza curarsi dell’uomo, della formazione sana della sua personalità ora aggiogata alla continua reiterazione di messaggi ingannevolmente stimolanti ma in realtà supportati da contenuti puramente necrofili diffusi attraverso la connessione di quanto è più meschino alla massima delle sofisticazioni utili al condizionamento dei pensieri e desideri stessi.
Opera ispirata sarà rigettare nell’immondezzaio dei rifiuti pericolosi ogni idea di falso messianismo, ogni considerazione intellettuale mirante a disincarnare i valori dello spirito dalla materia.

La via etica è necessariamente Stoica-Neoplatonica, (tensione interiore poi riversatasi nel più alto cristianesimo) vissuta attraverso l’esercizio della Temperantia, che vale "correggere", "mescolare per temprare", spiritualizzare il proprio temperamento mediante una sensibile adesione alla gravità materiale.
Discendere in sé per rinvenire la gioia di una libertà profonda innestata ai misteri stessi del tempo.
Essa è l’arte del tempo, la sua virtù che regola il grado di calore, di cottura, la misura di preparazione interna al nostro Vaso.
Temperante è colui che ha il sentimento del tempo.

lunedì 26 settembre 2011

Giuseppe Brex e il primato Italico (di Paolo Galiano, edito sul sito Simmetria: il portale stretto della Tradizione spirituale)




estratto da Roma prima di Roma, di prossima pubblicazione per le Edizioni Simmetria

Centuripe, città antica fondata dall’arcaico popolo dei Siculi, tra i numerosi motivi di interesse dovuti alla bellezza dei luoghi e ai notevoli resti archeologici ne ha uno meno conosciuto non solo dagli appassionati di storia ma forse anche dai suoi stessi cittadini, perché fu la città natale di Giuseppe Brex, una figura di studioso e di scrittore che si inserisce a pieno titolo in una linea di pensiero che possiamo far risalire almeno al XVIII secolo: parliamo di quegli scrittori che ricercarono le origini della civiltà italica, facendola risalire ad un periodo antichissimo e ponendola anzi come la più antica tra le civiltà del Mediterraneo.

L’argomento di questa ricerca storica prese il nome di “Saturnia Tellus”, la Terra di Saturno, termine adoperato dagli autori classici romani e greci per indicare l’Italia come il luogo in cui fiorì la prima civiltà introdotta dal Dio Saturno, il quale, secondo la mitologia, sconfitto e spodestato dal figlio Giove venne a rifugiarsi nel Lazio, dove fece costruire una città sul Campidoglio, che da lui prese il nome di Saturnia, là dove millenni dopo sarà fondata da Romolo la città di Roma.
Questo filone storico, indubbiamente appassionante e che solo in tempi relativamente recenti sta trovando le prime conferme negli scavi sul Campidoglio e sul Germalo intrapresi all’inizio del 1900, trovò le sue prime origini in autori toscani, tra cui Anton Francesco Gori, Mario Guarnacci e Luigi Lanzi, i quali nel 1700, in una Italia allora divisa tra tanti Stati e sotto il governo di popoli stranieri, rivendicarono attraverso lo studio dei testi degli antichi scrittori latini e greci il “primato italico”, cioè l’origine della civiltà occidentale, al popolo degli Etruschi.

Con il passare dei decenni, le ricerche furono approfondite e raggiunsero la prima sistematizzazione con Angelo Mazzoldi, il quale pubblicò a Milano nel 1840 il suo principale testo Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano, fondamentale per tutti gli autori che lo seguirono: egli dava il “primato italico” ad un popolo precedente gli Etruschi, popolo che abitava una terra che in seguito era andata distrutta da inondazioni e terremoti vulcanici, la Tirrenide (nulla a che vedere con l’Atlantide platonica), un subcontinente che comprendeva Italia, Sicilia, Sardegna, Corsica, l’isola d’Elba e Malta.
La moderna geologia ha in gran parte confermato le brillanti intuizioni di Mazzoldi: effettivamente alla fine dell’ultima Era Glaciale (circa nel 6000 a.C.) il Mediterraneo salì di oltre cento metri al di sopra del livello attuale, il che vuol dire che tutte le zone pianeggianti furono sommerse, e sembra che ciò sia avvenuto in un tempo abbastanza breve, forse non più di trenta anni.

A questa inondazione, da non confondersi con il diluvio biblico, fece seguito l’eruzione improvvisa della catena vulcanica che attraversa l’Italia dalla Toscana al Lazio, alla Campania fino alla Sicilia (si ricordi che nelle isole Eolie i vulcani sono ancora attivi e che nel mare tra Napoli e la costa nord della Sicilia vi è una catena parallela di vulcani, almeno uno dei quali , il Marsili, è ancora in fase eruttiva). Il “cataclisma italico” o “catastrofe atlantica”, come lo chiamarono questi scrittori, distrusse gran parte dell’Italia centrale e meridionale e staccò la Sicilia dal continente, a cui una volta era unita da un istmo (si pensi che questo già lo sapeva Plinio, autore romano che scrisse nel I secolo d.C. !), costringendo le popolazioni a rifugiarsi sui monti o a fuggire via mare per scampare alla catastrofe.
In questo movimento di popoli vi fu anche quello dei proto-Siculi, che, spinti dalle genti che facevano ritorno alla terra che avevano abbandonata a causa delle catastrofi, i Pelasgi, giunsero in Sicilia portando con sé il retaggio dell’antica civiltà della Tirrenide.

Al Mazzoldi fecero seguito una serie di studiosi e di archeologi i quali perfezionarono ulteriormente le sue tesi, anche grazie allo sviluppo di nuove scienze quali la paleoetnologia e la paleontologia ed ai nuovi studi archeologici che si andavano facendo a Roma come in Sicilia; ci limitiamo a citare tra essi Camillo Ravioli e Ciro Nispi-Landi per il XIX secolo ed Evelino Leonardi, Costantino Cattoi e Guido Di Nardo per il XX.
In questa linea di autori si inserisce a pieno titolo Giuseppe Brex, nato a Centuripe nel 1896 e morto a Lanuvio presso Roma nel 1972, autore di un testo, intitolato proprio Saturnia Tellus e stampato a Roma nel 1944, nel quale avanza la tesi che il “primato italico” sia da attribuirsi al popolo dei Siculi per il periodo successivo a quella che viene chiamata la “catastrofe atlantica”.

Nato in Sicilia ma vissuto a Roma, Brex si distingue dagli autori che lo hanno preceduto per diversi motivi: il suo libro, Saturnia Tellus, ha come argomento centrale l’antichità del popolo dei Siculi, del quale egli rivendica il primato sulle altre stirpi come più antica popolazione italica 1: non a caso il libro venne pubblicato a Roma nel maggio 1944, quando gli Anglo-Americani erano in procinto di sbarcare nella sua terra nativa (luglio 1944), quasi volesse rivendicare contro le più recenti etnie anglosassoni la supremazia storica dei siciliani; altro aspetto particolare è l’essere il suo un testo prettamente storico ed archeologico, che poco spazio lascia alle idee esoteriche che invece costituiscono il nucleo centrale delle opere di Leonardi e ancor di più del Di Nardo e di Cattoi (anche se quest’ultimo non ci ha lasciato scritti di sua mano, ma la storia dei suoi lavori non lascia dubbi in merito). Ciò non toglie che Brex possa avere avuto un ruolo nell’ambiente dell’esoterismo romano nel quale doveva essere conosciuto, visto che l’Introduzione al suo libro la scrisse Romolo Artioli, esoterista e noto archeologo, collaboratore di Boni negli scavi del Foro e del Palatino (2).
Molti anni dopo la pubblicazione del libro di Brex, venne rinvenuta nel 1963 una lapide scritta in dialetto dorico, la quale, tradotta dall’epigrafista catanese Giacomo Manganaro, rivelò essere un trattato di "riconoscimento ufficiale dei vincoli di parentela, di amicizia e di ospitalità, che legavano i Centuripini con i Lanuvini… il Senato di Lanuvio riconobbe la fondatezza della richiesta centuripina ed emanò il decreto di convalida dei remoti vincoli di parentela fra i due popoli” (3).
Il Sindaco di Lanuvio nel 1971 propose al suo omologo di Centuripe di rinnovare l’antico gemellaggio, invito che venne accolto anche per l’esortazione di Giuseppe Brex, a quel tempo Presidente dell’Associazione “Aborigeni d’Italia” da lui fondata a Centuripe. Da allora periodicamente il gemellaggio tra le due cittadine viene rinnovato nei mesi di maggio e di settembre, con l’incontro dei massimi rappresentanti dei due comuni.
Brex morì l’anno successivo al primo gemellaggio ma volle essere sepolto nell’adottiva Lanuvio, ove ancora oggi una stele ricorda lo studioso.

La “lapide del gemellaggio” confermava, con una prova archeologica inconfutabile, le tesi già espresse da Brex nel 1944 della comune origine dei Siculi e dei Latini: Brex aveva messo in luce i rapporti, davvero singolari, tra la sicula Centuripe e Roma, ricordando come Cicerone nelle sue orazioni contro Verre, il pretore che aveva dissanguato la Sicilia durante il suo incarico, avesse affermato le comuni origini dei cittadini di Centuripe e di Segesta con la stessa Roma: “I cittadini di Segesta e di Centuripe sono legati al popolo romano non solo per i servizi resi, per la fede giurata, per l’antica amicizia, ma anche per essere nati da uno stesso ceppo”. (4)

Questa comune origine di due città così distanti tra di loro si può spiegare con la comune discendenza dei due popoli, i Siculi ed i Romani, dal ceppo proto Latino, e gli studi archeologici ed antropologici che erano stati condotti nella prima metà del XX secolo, in particolare quelli di Orsi, grande ricercatore delle origini siciliane, e di Sergi (5), avevano dato una nuova conoscenza della storia della Sicilia.
La tesi dei Siculi come primi abitatori d’Italia, ripresa più tardi dal Di Nardo in suo lavoro del 1952, sempre poggiato sugli studi del Sergi (6) (nel quale attribuisce tale primato al popolo Ligure-Siculo di cui sarebbero successive ripartizioni i popoli dei Latini, Osci, Volsci, Sabini, Marrucini e Frentani), si appoggia, secondo Brex, anche sulle somiglianze di molti nomi di città o località sicule sia con quelle latine (pagg. 42 ss.), sia con quelle della Troade, la regione dove sorgeva Troia e da cui era venuto Enea in Italia, il che “ci fa ritenere che il luogo d’origine dei Siculi sia appunto quello dell’Asia Minore” (pagg. 16 ss.), Siculi che sono per Brex appartenenti alla famiglia degli Indoeuropei, affermazione contrastante con le tesi anti-indoeuropeiste degli scrittori che lo hanno preceduto, Leonardi e Di Nardo come dello stesso Sergi.
L’origine del nome “Siculi” è spiegata dall’autore in modo piuttosto particolare: il nome verrebbe da “Aus(ik)eli” cioè gli “Asi Antichi”, da cui Sikeli ed infine Siculi, dove il termine keli, antico, andrebbe messo in relazione con parole latine come sae-culum, periodo antico, e Jani-culum, monte dell’antico Dio Giano (pag. 21); ad appoggiare la sua tesi, Brex cita la radice africana kulù usata da molte popolazioni dell’Africa sud-orientale per comporre il nome del loro più importante Dio, il cui significato è “vecchio antenato”.

L’antichità della popolazione sicula sarebbe confermata dal fatto che Saturno, il più antico Dio italico, è raffigurato con in mano il falcetto o sikala, strumento ideato dai Sikeli-Siculi per falciare e disboscare (pag. 23 e pag. 33); questa immagine del Dio si è poi trasformata in quella di Saturno con la falce quando la religione italica venne a contatto con quella greca, in cui Kronos, la divinità greca ritenuta omologa del Saturno romano, era il Dio del Tempo che trascorre e non più il Dio che aveva dato agli uomini la conoscenza dell’agricoltura e della civiltà.

Non possiamo sorvolare su di un errore commesso da Brex, il quale segue in questo Ravioli e Leonardi (senza però citarli), nella descrizione che egli fa degli effetti del “cataclisma atlantico” sulla forma dell’Italia: riprendendo la cartina che Ravioli (immagini sottostanti) aveva pubblicato ne I primi abitatori rifacendosi alle parole di Plinio 7, egli commenta dicendo che “Secondo questo grande scrittore [cioè Plinio] (Nat. Hist III e V) [errore: in realtà è libro III, cap. V, 43], la primitiva forma geografica della nostra Patria era quella di una foglia di quercia, successivamente, in un periodo remotissimo (forse contemporaneo all’inabissamento dell’Atlantide), tratti di territorio della nostra penisola furono sommersi. Dopo tale cataclisma, il resto della penisola dalla forma di foglia di quercia prese quella attuale di uno stivale” (pag.13). La cartina del Ravioli venne ripresa (senza citazione) da Leonardi e poi da Brex con alcune variazioni, consistenti nella cancellazione del rettangolo posto in alto a destra nel disegno di Ravioli.

Lo sbaglio si perpetua nel tempo: infatti “Siro Tacito”, parlando dell’argomento in Prima Tellus (Roma 1998, pagg. 38 – 40), non si accorge dell’errore di traduzione commesso dai tre autori e lo stesso avviene in Roma Renovata Resurgat del Giorgio (Roma 2011, vol. I, pag. 19 nota 3), dove si parla del “ricordo di un’Italia antichissima, fisicamente diversa da quella attuale, [che] si trova in Plinio”.
Il testo di Plinio ha invece il verbo al presente: “Est folio maxime querno adsimilata , e non al passato, “fuit”, quindi lo scrittore latino intende riferirsi al modo in cui ai suoi tempi era concepita la forma geografica dell’Italia, senza alcun riferimento a mutamenti di sorta.
L’errore, nato con Ravioli, si continuò nei secoli successivi, visto che nessuno dei suoi epigoni aveva pensato di controllare la citazione originaria.

A parte questo suo errore, l’opera di Brex rimane un lavoro interessante, fosse solo perché dimostra come, anche tra le difficoltà materiali del periodo bellico ormai alla fine e con l’invasione anglo-americana alle porte, il mito della Terra di Saturno fosse ancora vivo tra gli italiani e fonte di orgoglio e non di vanità per un popolo la cui antichità e la cui sapienza superavano di gran lunga quelle di qualunque altra nazione.


1 I primi assertori dei Siculi quale primo popolo abitatore dell’Italia erano stati in precedenza Cuoco nel Platone in Italia scritto tra il 1804 e il 1806 e Micali ne L’Italia avanti il dominio dei romani pubblicato a Firenze nel 1810.
2 Su Artioli vedi GIORGIO Roma Renovata Resurgat, Roma 2011, vol. I pag. 115.
3 In Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti - Nuova Serie - Vol. XXXVIII,Napoli 1963. Per maggiore completezza si potrà trovare il testo della stele e la storia di questo gemellaggio in http://www.lanuvionline.eu/pag_WEB/pagine_curioso/gemellaggio/rinnovo_gemellaggio.htm.
Ringraziamo il vicesindaco Dott. Giuseppe Biondi per il materiale e le informazioni forniteci.
4 Citazione in Giuseppe Brex Saturnia Tellus, pagg. 56 – 57. Al suo testo sono riferiti i numeri di pagina posti tra parentesi.
5 Vi è stato chi ha ritenuto (“SIRO TACITO” Prima Tellus, Roma 1988 pag. 40 nota 35) che il libro di Brex fosse in realtà un manoscritto inedito dello stesso Sergi pubblicato sotto falso nome: a parte il fatto che il Sergi morì nel 1936, otto anni prima della pubblicazione di Saturnia Tellus, ci sembra che la vita stessa di Brex smentisca tale affermazione.
6 Guido Di Nardo I più antichi popoli italici secondo gli storici classici, in “Biblioteca dei Curiosi” n° n. 28 - anno 1952 pag. 18.
7 Le cartine in questione si trovano in RAVIOLI L’Italia e i suoi primi abitatori Roma 1865, LEONARDI L’origine dell’uomo Roma 1932 a pag. 353 (il quale taglia la scritta di Ravioli contenuta nel rettangolo in alto a destra “Atlantica-Italia an. 2200 a.C.”) e BREX Saturnia Tellus cit. a pag. 12 (il quale elimina anche il rettangolo).


martedì 6 settembre 2011

Saturno nella tradizione italico-romana






















• 6. – LA LEGGENDA DI SATURNO.

Tutti conoscono la tradizione greco-latina delle quattro età; in ordine cronologico l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. La più antica, l’età aurea, era stata la più bella, l’età beata, rimpianta e cantata dai poeti, ed il mondo era andato dopo d’allora peggiorando continuamente.

La tradizione latina identificava quel tempo felice con i «Saturnia regna» (Virgilio, Aen., IV, 6; VI, 41; I XI, 252) perché la tradizione raccontava che Saturno, spodestato da Giove ed espulso dal cielo (Ovidio, Fast., I, 292), era approdato in Italia rifugiandosi e nascondendosi nel Lazio, dove Giano, re d’Italia, lo ricevette e regnò con lui durante l’età dell’oro. Egli dette il nome all’Italia, detta appunto Saturnia Tellus (Virgilio, Aen., VIII, 329; I, 569; Geo., II, 173; Ovidio, Fast., I, 232; Macrobio, I, 7; Festo, ed. Teubner, p. 430); e Dionigi di Alicarnasso (Antiq. Rom., I, 34) dice che «tutta l’Italia era sacra a questo nume e dagli abitanti (incolis) veniva chiamata Saturnia come si trova dichiarato nei carmi sibillini ed anche in altri oracoli resi dagli dèi».

Gli Antichi dicevano che anche il Lazio era così chiamato perché Saturno vi si era nascosto (latere, Virgilio, Aen., VII, 322; Ovidio, Fast., I, 232).
L’etimologia corretta è probabilmente da latum, ampio, lato; ma le etimologie errate degli Antichi hanno pur sempre grande importanza, perché non sono arbitrarie ma son volte a confermare eventi e fatti connessi alla cosa. Su di essa ritorneremo. Tornando a Saturno, egli si stabili ai piedi del Campidoglio, detto per questo motivo (Festo, p. 430) Saturnius mons; ivi sorgeva difatti il suo tempio, uno dei più antichi di Roma.

Il primo modesto santuario gli era stato ivi dedicato da Tullo Ostilio, nell’occasione dell’istituzione dei «Saturnalia»; Tarquinio concepì il progetto di sostituirlo con un tempio, e la repubblica due o quattro anni dopo la caduta del tiranno lo costruì in effetti nel posto prescelto dedicandolo a Saturno. Fu restaurato ai tempi di Augusto e ne rimangono tuttora otto imponenti colonne ioniche. La leggenda diceva che tale ara sul colle capitolino gli era stata dedicata prima della guerra troiana (Festo, p. 430); e che sulla collina sabina del Campidoglio si elevava una città di Saturno (Dionigi di Alic., I, 34; VI, I, 4).

Agli abitanti del Lazio, Saturno insegnò l’agricoltura e l’arte della navigazione; la leggenda raccontava che alla fine egli era subitamente svanito dalla terra (Macrobio, Sat., I, 7). Si parlava anche, in Roma, di un’antica popolazione saturnia che avrebbe abitato la campagna e la città; e di coloro i quali, rimasti fedeli agli antichi costumi, vivevano della coltura dei campi, si diceva che erano rimasti i soli della razza del re Saturno (Varrone, R. R. 3, 5). Questi, in breve, i caratteri salienti della leggenda, dell’arrivo, del rifugio, del regno, dell’apoteosi e dell’insegnamento di Saturno in Italia.

Questa leggenda latina di Saturno si connette alla dottrina tradizionale dei «cicli» e soltanto con l’esistenza di una dottrina tradizionale originaria si può plausibilmente spiegare la concordanza evidente tra le quattro età della tradizione classica ed i quattro Yuga della tradizione indù.
La leggenda, collegando l’aureo (Virgilio, Eg., II, 538) Saturno all’età aurea, fa risalire allo stesso tempo arcaico il suo insegnamento, e ci dice che Saturno col suo insegnamento si nascose nel Lazio. L’insegnamento di Saturno si collega dunque alla «tradizione primordiale»; trovato un rifugio nel Lazio, viene quivi occultamente trasmesso.
La morale della favola dal nostro punto di vista è questa: la tradizione della Sapienza romana deriva da quella primordiale dell’età aurea, ed esiste occultamente nel Lazio.

La leggenda acquista un significato preciso per coloro i quali hanno ragioni per riconoscere l’esistenza sopra o sotto la terra di un centro iniziatico supremo, in passato ed oggi. Questo collegamento e derivazione dal centro iniziatico supremo è nettamente affermato e confermato da Virgilio (Aen., VIII, 319): primus ab aetherio venit Saturnus Olympo, e da Ovidio: caelitibus regnis a Iove pulsus erat (Ovidio, Fast., I, 292). Saturno dà agli uomini le ricchezze, la prosperità e la libertà; le sue feste, i Saturnalia, si celebravano in dicembre (sacro a Saturno, come il mese seguente era sacro al suo ospite Giano); erano le feste dell’abbondanza, della licenza e della gioia sfrenate, che davano la libertà (la «libertà di dicembre») anche agli schiavi.

Questo carattere orgiastico, popolare, dei Saturnali, è a tutti noto; e, ordinariamente, non si pensa che i Saturnali possano avere avuto anche un altro carattere. L’analogia con l’orfismo e coi baccanali dovrebbe già, per altro, ingenerarne il sospetto. Quanto abbiamo rilevato circa il carattere iniziatico di Saturno ed il suo collegamento alla «tradizione primordiale» ed all’Olimpo rende logicamente verosimile e probabile che debba esservi stato tale carattere dei Saturnali. Ed infatti così risulta. Ce lo fa sapere uno scrittore latino, Macrobio, il quale (Sat., I, 7) dice che gli «è permesso svelare non quell’origine dei Saturnali che si riferisce all’arcana natura della divinità, ma quella che è mescolata a tratti favolosi, o quella che i fisici insegnano al volgo.

Poiché neppure nelle stesse cerimonie iniziatiche (in ipsis quidem sacris) non è permesso narrare le ragioni occulte ed emananti dalla fonte della pura verità (ex meri veri fonte); e se alcuno le consegue gli è ordinato di contenerle protette entro la coscienza».
Per mezzo di Saturno «hoc principe e con la scienza « delle buone arti – dice Macrobio (l. c.) – da una vita incolta e tenebrosa siamo fatti uscire quasi alla luce». Per questo suo merito «Giano ordinò che Saturno fosse onorato majestate religionis, quasi vitae melioris auctorem».
Notisi inoltre che l’italico Saturno è un dio delle profondità, un dio sotterraneo, particolarità intieramente concordante con la tradizione del mondo sotterraneo dove si nasconde e permane la gerarchia iniziatica secondo quanto, da fonti diverse, han riportato il Saint-Yves d’Alveydre ed Ossendowski.

La tradizione dunque sin dai primissimi tempi, dall’approdo di Saturno in Italia, dà un carattere occulto alla sua permanenza nel Lazio ed insieme a quanto dice Macrobio mostra che questo centro iniziatico ed il suo insegnamento hanno avuto sin da allora carattere occulto. E poiché la tradizione afferma che Saturno insegnò agli abitanti del Lazio l’agricoltura, la peritiam ruris (Macrobio, I, 7) e l’arte della navigazione in cui eccelleva (Virgilio, Aen., V, 799), si presenta spontanea l’indicazione che tale dottrina od insegnamento la si debba cercare sotto il simbolo agricolo e marinaro.

7. – ETIMOLOGIA DI SATURNO.

Il carattere precipuamente agricolo di Saturno era confermato, secondo gli Antichi, dalla stessa etimologia del nome. Saturno è un nome assai antico e figura già nel carme dei Salii: qui deus in saliaribus Sateurnus nominati (Festo, ed. Teubner, p. 432). Il suffisso urnus che si ritrova in di-urnus, noct-urnus, Volt-urnus, fa senz’altro pensare ad una consimile formazione e derivazione di Saturno da un radicale sat o sate; si tratterebbe, come per diurno e notturno, di una specie di aggettivo od attributo caratteristico del dio o del re Saturno, atto a costituirne la caratteristica designazione, divenutane il nome.
Per Varrone (De l. l., V, 64) Saturno è così detto ab satu. Satus è l’azione del seminare o del piantare; ed è voce, notiamolo, adoperata anche nel senso figurato (cfr. Cicerone, Tusc., 2, 13). Saturno sarebbe così il sator, il coltivatore per eccellenza.

Questa etimologia fu ammessa sino a pochi decenni or sono. Oggi non piu. Lo Schwegler (Röm. Gesch., p. 223) fa derivare Saturno da satur = πληρωτής πάσης ευδαιµονίας, la sorgente di ogni felicità.

II «Dictionnaire étymologique du Latin» del Regnaud (1908) fa derivare invece Saturnus da una voce arcaica ipotetica: svaurn-us, da cui l’altra voce sempre ipotetica (s)veter-nus collegata a vetus. Saturno sarebbe il veterano degli Dei, e quindi il padre, il creatore dell’universo; il Regnaud convalida questa etimologia con l’analogia col greco κρο-όνος, il creatore, l’antecedente di tutte le cose. Crono fu infatti confuso con Chrono (κρ-όνος); e questa fu una delle cause per cui Crono, eppoi il corrispondente latino Saturno, da divinità agricola divenne il dio del tempo; e conseguentemente la falce, attributo agricolo di Saturno, divenne la falce del tempo.

La Pauly Real Encyclopedia (ed. 1923, p. 188) dice d’altra parte che il nome del dio sotterraneo Saturno, di cui esiste anche l’antica forma Sateurnus, è senza dubbio identico al nome Satre della corrispondente divinità etrusca, e riporta l’opinione dell’Herbig, che dalla vicinanza delle due forme latina ed etrusca è indotto a rintracciare una comune radice Sav (dal nome Σάβας) in un linguaggio dell’Asia minore.
Queste etimologie moderne non sono molto soddisfacenti, e ci permettiamo di proporne un’altra. La simiglianza con l’etrusco Satre rende già plausibile il cercare l’etimologia di Saturno fuori dal latino; tanto più che conviene tenere anche conto della simiglianza con l’anglo-sassone Saeter. Ora, come è noto, porta il nome di Saturno anche il pianeta per gli Antichi più lontano dalla terra. Per la sua lontananza spaziale Saturno è il primo pianeta, seguito da Giove, come il regno di Saturno era il più antico nel tempo e precedeva il dominio di Giove.

L’antico tedesco chiamava Satjâr il pianeta Saturno; e quando sul finire della repubblica si introdusse l’uso della settimana, i giorni della settimana furono denominati in corrispondenza ai pianeti ed alle loro divinità. Consimili denominazioni ricevettero i nomi della settimana anglo-sassone, e dal confronto risulta come l’anglo-sassone Saeter venne considerato come una divinità equivalente a Saturno, cui era dedicato il pianeta Saturno (Saturni stella; Virgilio, Georg. I, 336 e II, 406) ed il Sabato, il Saturni dies di Tibullo (I, 3, 18).

Se contiamo i giorni della settimana di due in due, procedendo coi numeri dispari, essi si presentano nel medesimo ordine del sistema planetario degli antichi: Lunedì, Mercoledì, Venerdì, Domenica, Martedì, Giovedì, Sabato. Al Lunae-dies corrisponde il Moon-day inglese, al Mercuri-dies il Wednes-day, il giorno di Woden (Wotan) Odino; al Veneris-dies il Friday a. s. Frigedaege dalla divinità Freya; al Domini-dies il Sun-day, il giorno del Sole; al Martis-dies il Tues-day, giorno di Tyr (gen. Tys), etimologicamente affine al div di diovis; al Jovis-dies il Thursday o thorsday, ted. Donners-tag, giorno del Dio Thor, giorno di (Giove) tonante (ingl. thunder = ted. Donner = tuono); ed al Sabato (voce ebraica), il Saturni-dies, corrisponde il Satur-day, antico a. s. saeter-tag. La corrispondenza, se non perfetta, è sempre tale da identificare il latino Sate urnus ed il tedesco saeter e da indicare una comune derivazione.

Ora noi abbiamo veduto che le quattro età dell’antichità greco-latina corrispondono ai quattro yuga degli Indù. È dunque possibile una corrispondenza analoga anche nel nome Saturno. La corrispondenza non vi è per il nome del pianeta che in sanscrito è shani che significa basso ed indica il pianeta più basso, più lontano; ma esiste una corrispondenza, per noi molto più importante, con la denominazione sanscrita dell’età dell’oro.

Il primo dei quattro yuga ha infatti due denominazioni, entrambe interessanti per la nostra questione. Sono krta-yuga e satya-yuga. Krta-yuga è l’età perfetta (per-fectum), dalla radice kra = fare, compiere, da cui secondo il Curtius deriva anche il nome greco Cronos di Saturno; satya-yuga è l’età buona, la vera età. L’aggettivo satya, vero, è connesso a sat, l’essere, e quindi il reale, il vero. Satya-yuga è l’età di Sat, l’età dell’«Essere».
L’affinità tra satya ed il tedesco Satyar è evidente; saeter-tag è il giorno del dio vero, come Donnerstag è il giorno del dio tonante. Il latino sate-urnus, il tedesco saeter, l’etrusco satre indicherebbero tutti il dio vero, reale per eccellenza. Le derivazioni di questi tre nomi dal sat di satya-yuga, e quelle del greco Cronos dal kr del Krta-yuga, si corrispondono e si comprovano reciprocamente. E come il suffisso sanscrito ya unito a Sat dà il nome dell’età aurea, cosi il suffisso latino urnus unito a Sat dà il nome dell’aureo Saturno, il re dell’età aurea.

Con questa etimologia la dottrina di Saturno viene ad essere la vera dottrina, la dottrina di sat, la dottrina dell’«essere». Troviamo così un’altra conferma della connessione tra questa arcaica tradizione latina e la tradizione primordiale; ossia sin dall’inizio di questa nostra difficile indagine troviamo i titoli della «ortodossia spirituale» della tradizione romana.

La presenza nel latino e nelle antiche lingue italiche di questa voce arcaica indo-europea sat potrà forse sembrare a taluno un fatto strano ed isolato. Ma non è cosi. Un altro esempio è dato dalla voce Acca, il nome di Acca Larentia, la nutrice di Romolo e Remo, e la madre dei primi dodici fratelli Arvali, la quale in sanscrito (okkâ), come nota il Preller (Les Dieux de l’ancienne Rome, Paris, 1865, p. 291), significa madre. Un altro esempio, questo non ancora riconosciuto, è dato dalla voce anna (radice ad, latino edo), in sanscrito nutrimento, che ricompare tale e quale in anna perenna, il mitico romano cibo d’immortalità, equivalente all’ambrosia dei Greci.

8. – ADDENDA.

Molte altre cose vi sarebbe da riferire e da osservare a proposito di Saturno e di Crono. Tra il greco Crono ed il latino Saturno occorre certo far distinzione, ma, secondo quanto abbiamo veduto, Saturno e Crono, entrambi regnanti nell’età aurea, si riallacciano etimologicamente alle due denominazioni sanscrite dell’età dell’oro, e questo fa vedere che la identificazione del latino Saturno col greco Crono, operata in seguito dai Romani, aveva la sua profonda ragione di essere nella comune connessione con l’arcaico sat e con il Satya-yuga. Comunque, per il loro significato e la loro importanza esoterica, osserviamo che:

1°)
Crono è figlio di Urano e di Gea (il cielo e la terra); è la caratteristica dei dodici titani (Esiodo, Teog., 133), dei ciclopi (gli esseri dotati della terza vista, la vista ciclica), nonché degli iniziati orfici, i quali si fanno forti di questa loro genealogia per invocare il diritto di bere alla fonte di Mnemosine, superare quella del Lete, e da mortali divenire per tal mezzo immortali. E nella tradizione romana Saturno, figlio del cielo e della terra, non muore; svanisce subitamente, come Enoch ed Elia nella tradizione ebraica.

2°) Plutarco menziona una leggenda secondo la quale Crono detronizzato dorme in un’isola dei mari del Nord (De delf. orac., 18); per questo il mare a settentrione dell’Asia, secondo quanto riferisce il geografo Dionigi, era chiamato mare glaciale o saturnio. Questa leggenda collega Saturno con la tradizione del centro iniziatico iperboreo, equivalente alla stessa tradizione primordiale.

3°) La leggenda del «betilo» fatto inghiottire a Crono con tutti i suoi sviluppi.
Ma poiché ci interessa soprattutto il carattere arcaico italico di Saturno, preferiamo non ricorrere alla Grecia per provare la sua esotericità; così pure, non ci occuperemo della consacrazione a Saturno del pianeta Saturno in astrologia, del giorno della settimana nel calendario e del piombo nella tradizione ermetica.
Riteniamo invece non privo di interesse l’osservare come anche altre tradizioni attribuiscano a Saturno l’insegnamento dell’agricoltura inteso allegoricamente. Così avviene in un’antica tradizione contenuta nella «Agricoltura Nabatea», poema arcaico tradotto in tedesco da Daniele Chwolsohn da una antica versione araba del testo caldaico.
L’autore od amanuense Qu-tâmi alla prima pagina della sua rivelazione dice che le dottrine contenute nel testo furono originariamente insegnate da Saturno… alla Luna, che le comunicò al suo idolo, e l’idolo al suo devoto, lo scrittore, l’adepto-scriba del lavoro Qu-tâmi (cfr. H. P. Blavatsky, Sec. Doct., II, 474).
Chwolsohn pone la prima traduzione araba al 1300 a. C. Non sapremmo dire quale fosse la parola caldaica tradotta con Saturno, ma parrebbe si trattasse del pianeta. È ad ogni modo curiosa la presenza di questo carattere agricolo in Saturno anche presso questa antica tribù semitica.
Quanto al carattere eminentemente agricolo dell’arcaico Saturno italico, esso è indiscutibile. Tutte le invenzioni agricole risalgono a lui; quella dell’innesto, ad esempio, e quella del letame, il laetamen che allieta e rende feconda la terra. Il simbolo di Saturno è la falce che serve a ripulire il terreno dalle male erbe, a potare le piante ed a mietere il raccolto. Festo dice che Saturno presiedeva alla cultura dei campi, quo etiam falx est ei insigne, e Macrobio (Sat., VII) fa della falce l’emblema della messe. A questo suo carattere agricolo va però associato il suo carattere occulto, abbinamento che si presenta anche in altre divinità agricole e ctoniche italiche. Tra queste notiamo la Musa Tacita di Numa (Plutarco, Numa, 8), la dea Muta di Tatius (Ovidio, Fast., II, 583), la dea Angeronia del Velabro rappresentata con un dito sopra la bocca ed in atteggiamento silenzioso (ore obligato signatoque).
Anche l’associazione del carattere agricolo e marinaro di Saturno ricompare in altre divinità italiche. «Le dee-terra d’Italia – scrive André Piganiol (Essai sur les origines de Rome, Paris, 1917, p. 112) – sono assai frequentemente nello stesso tempo dee dei marinai. Fortuna tiene un timone e Venere, come Afrodite, protegge i porti».

9. – IL SIMBOLISMO AGRICOLO IN ROMA.

Virgilio, il poeta iniziato, chiama la terra magna parens frugum, Saturnia tellus (Georg., II, 173; Aen., VIII, 329) e chiama i campi i Saturnia arva (Aen., I, 569). Ar-vum quod aratum nec satum est (Varrone, R. R., I, 12), è il terreno lavorato, ar-ato. La radice ar, di cui è difficile determinare il senso più antico, significa semplicemente lavorare; aratro è lo strumento di questo lavoro, che ha per effetto di aprire le viscere del terreno ed esporre le zolle all’azione solare.
La profonda connessione tra l’agricoltura ed il culto risulta già dal fatto che l’ara arcaica (dal vecchio latino asa), l’altare nel suo senso primo di ara destinata ad accendervi sopra il fuoco sacro (ara turaria), era costituita da una semplice zolla di terra e si chiamò altaria, quando era alta da terra; Festo ci riferisce che «altaria ab altitudine dicta sunt», perché gli Antichi facevano i sacrifici agli dèi superi in edifici a terra excitatis, agli dèi terrestri in terra, agli dèi inferi in effosa terra (in una fossa).
L’ara era anche spesso una semplice ara graminacea (p. es. in Virgilio, Aen., XII, 118; Ovidio, Met., VII, 241; ecc.); ma originariamente era una zolla di terra; e, come dice il Vico (Principî di Scienza Nuova, II), «le terre arate furon le prime are del mondo». E siccome, secondo attesta Varrone (l. l., V), Saturno è il fuoco, tanto che con questa identificazione di Saturno e del fuoco si spiegava (Varrone, l. l., V; Macrobio, Sat., I, 7) l’uso di inviare durante i Saturnali delle candele di cera ai «saturnali superiori», l’ara risulta duplicemente legata a Saturno: perché fatta di una semplice zolla di terra, e perché destinata ad accendervi il fuoco sacro.
La voce ara non è la sola che dal primitivo significato agricolo assurge a termine del culto religioso. Le tracce dell’allegoria e del simbolismo agricolo compaiono ancor oggi nelle lingue neo-latine. Così la cultura dei campi, la cultura dell’animo ed il culto religioso si designano mediante parole strettamente affini, derivanti dal latino colere. G. B. Vico (Principî di Scienza Nuova, II) scrive: «Il primo colere che nacque nel mondo della gentilità fu il coltivare la terra; e il primo culto fu erger sì fatti altari, accendervi, tal primo fuoco, e farvi sopra sacrifici, come testé si è detto, degli uomini empi (le «Saturni hostiae)». Si chiamava culto tanto quello dei campi che quello degli Dei. Virgilio canta insieme gli arvorum cultus et sidera caeli (Georg., I, 1); ed invita gli agricoltori ad apprendere propeios cultus (Georg., II, 47); Orazio si confessa parcus deorum cultor. Incolto indica ancor oggi tanto il terreno non coltivato quanto l’uomo senza cultura. Poiché come è necessario coltivare la terra per ottenerne i frutti che da sé non darebbe, così è necessario coltivare l’uomo per ottenerne i frutti che da sé non maturano.
Questa assimilazione dell’uomo, e più particolarmente del corpo umano, al terreno, è assai antica e diffusa. Secondo il dizionario del Brail e Bailly non è impossibile che la stessa parola homo designi l’uomo come abitatore della terra. Da homo (hominis) si fa di solito derivare humanus. In tal caso humanus sarebbe indirettamente collegato alla terra, ma non sarebbe connesso con la voce foneticamente cosi vicina humus, voce che designa la terra umida (humor, umore) e perciò coltivabile, in contrasto con la terra secca, arida ed arsa (tersa = terra pel rotacismo).
Ciononpertanto la connessione tra humus e humanus ci sembra tutt’altro che da escludere; la sua verisimiglianza è comprovata dall’esistenza, che ha pure la sua importanza, di un analogo parallelismo in altre lingue e tradizioni, e dalla esistenza in linguaggi indo-europei di vocaboli etimologicamente connessi a queste parole latine, ed aventi significato affine. Il Dictionnaire étymologique de la langue grecque di E. Boisacq (1923, p. 104) collega il dativo omerico χαµαί (a terra) ad un ipotetico i. e. ghmmai, da cui il latino humi (dativo = a terra) e la voce ipotetica homo-s, humus, humilis, il v. lat. hemonem, l’osco humuns (uomini), l’umbro homones ecc.; ed a questa radice i. e. anche l’altra radice ghom, ghem che, con la perdita dell’aspirata, si ritrova nel tedesco gam in Bräutigam, inglese bridegroom (antic. bruidegom), indizi e residui disseminati nelle varie lingue indoeuropee di una arcaica assimilazione tra uomo e terra. Assimilazione, che ha il suo parallelismo nell’ebraico, dove adamah significa terra, in quanto elemento, materia, ed adam significa uomo, ed è il nome del primo uomo, formato da Dio, secondo la «Genesi», con il fango della terra.

Comunque, esplicita identificazione tra corpo e terra è categoricamente fatta da due antichi scrittori latini, Ennio e Varrone. Varrone dice (De l. l., V, 59): «Haec duo, Caelum et Terra, quod anima et corpus. Humidum et frigidum terra eaque corpus, caldo coeli et inde anima». Ossia: Il cielo e la terra sono lo stesso che l’anima e il corpo. Il corpo ha per elementi l’umido ed il freddo che sono la terra, e l’anima ha per essenza il calore o il cielo. E poco oltre: «humores frigidae sunt humi». Quindi Varrone (De l. l., V, 60) scrive: «Ha ragione Pacuvio che dice: Animam aether adjugat (l’etere accoppia l’anima)»; ed Ennio: «Terram corpus quae dederit, ipsam capere, neque dispendi facere hilum» (La terra stessa ossia il corpo prende ciò che [l'anima] le diede, né con ciò fa la menoma perdita). «La separazione – prosegue Varrone (De l. l., V, 60) – dell’anima dal corpo è per gli esseri viventi un’uscita dalla vita, exitus; come si chiama la morte exitum (cfr. ital. esiziale) e la nascita initia perché il corpo e l’anima in unum ineunt».

Secondo Ennio e Varrone, dunque, come la terra si apre grazie all’aratro per poter accogliere il seme gettato dal coltivatore e farlo fruttificare, cosi il corpo si apre per concepire l’anima, e la materia diviene in tal modo la mater dell’anima; ed il palese e non casuale richiamo ai Misteri (initia) fa capire che il paragone ha valore e va riferito non soltanto al caso della nascita umana, ma sibbene anche al caso della rinascita (la palin-genesi) iniziatica, la nascita alla «vita nuova ».
Varrone ed Ennio, dunque, adoperano in senso spirituale ed addirittura iniziatico il simbolismo dell’agricoltura. Si ponga d’altra parte questo passo di Varrone accanto a quello su riportato di Macrobio circa il carattere e il significato esoterico dei Saturnali, e si veda un po’ se i due passi non si completino e non si chiariscano a vicenda, e se insieme non ci diano la conferma della esistenza, e della persistenza nei tempi classici, di una tradizione iniziatica romana collegata e derivante dalla tradizione primordiale dell’età dell’oro. Si veda un po’ se non è legittimo, anche limitandosi ad una semplice indagine culturale, vedere nella cultura dei campi cui presiedeva Saturno, il simbolo della cultura nel campo spirituale, e nella peritia ruris, nell’arte della coltivazione, insegnata ai latini da Saturno, la dottrina e l’arte della coltivazione dell’uomo, la dottrina tradizionale, primordiale, che Saturno, il dio vero, il satya-deva, arreca dall’Olimpo etereo, ed occulta nel Lazio nell’età aurea.

Naturalmente non pretendiamo con quanto abbiamo rinvenuto, illuminato ed inquadrato, persuadere tutti i nostri lettori. Anzi, agli scettici per sistema dichiariamo onestamente che non possediamo la documentazione cinematografica dello sbarco del re Saturno sulle rive del Lazio; ed agli irrisori dei nostri miti pagani, perché credenti nelle buone novelle esotiche, non diciamo nulla, sol perché non ci è lecito dire loro quanto si meriterebbero. A coloro, per altro, che in parte almeno aderiranno a quanto abbiamo scritto, dobbiamo fare rilevare che la presente è la prima esposizione di questa visione dell’esoterismo romano; e dobbiamo invitarli a non alterarla nel prendercela e nel riesporla, nonché a volersi ricordare, senza reticenze ed infingimenti, di citare la fonte. Questo diciamo non per misera umana ambizione, né in nome della correttezza e della morale, ma sibbene a scanso di equivoci. Coerentemente è d’altra parte nostro dovere riconoscere e dichiarare che, se ci è consentito pandere res alta terra et caligine mersas, non è unicamente opera e merito nostro, ma è anche dovuto a qualche importante indicazione tempestivamente e «gerarchicamente» trasmessaci.


Arturo Reghini “sulla Tradizione Occidentale”, pubblicato dalla rivista “UR” nel 1928

giovedì 1 settembre 2011

1° Settembre: aurora chimica sulla capitale

Non sempre ho a disposizione il tempo o la possibilità di documentare quanto accade nei cieli di Roma...anche oggi all'alba l'irrorazione chimica è stata massiccia...quasi quotidianamente lo è nella pressoché totale indifferenza delle persone e questo dispiace.
Rimangono gli interrogativi di sempre: perché quest'ostinazione nel voler riempire l'atmosfera di particolato sintetico? quale reale finalità persegue tale progetto? perché le istituzioni non mettono in correlazione l'aumento dell'incidenza delle malattie cardiovascolari e tumorali con suddetti voli? e ugualmente il progressivo impoverimento delle terre coltivate, la malattia del terreno che è dilagante e ben nota agli agrigoltori perché non viene messa in relazione al rilascio di simile sostanze?

Ogni statua antica a me sembra una sentinella dell'avvenuta consumazione dei tempi, del progressivo deterioramento dei cieli, l'impressione è che si profila sempre più nettamente il contorno grigio di un futuro disumano e dobbiamo esserne consapevoli.

Cerco di avvalermi dei pochi frammenti del Mos Maiorum che mi è possibile interiorizzare.
































domenica 31 luglio 2011

Irrorazione chimica del "Cielo Urbico"

Stamattina ore 7:30 in zona S. Pietro e Gianicolo ennesima operazione d'aereosol clandestina questa era la situazione: cielo lattescente striato da più rilasci di particolato d'ignota composizione.
Come cittadini avremmo il diritto di sapere cosa spruzzano sulle nostre teste, cosa inaliamo respirando e cosa ricade sui campi coltivati, cosa penetra fin nelle falde acquifere.
Le istituzioni negano l'esistenza del fenomeno, ma la loro negazione di per sé è ormai prova evidente di una oscura malafede.



















Dalla sommità del Gianicolo si vede come tutta l'area dei castelli romani sia stata ricoperta da questi voli foschi








Qui un'analisi dettagliata delle nubi sintetiche http://www.tankerenemy.com/2011/07/nubi-di-metallo.html

venerdì 8 luglio 2011

UNA BREVE RIFLESSIONE SUL MITO E NOSTRO FUOCO SEGRETO























Annoto questi appunti attingendo alla bisogna, nel fondo pozzo delle consolazioni di un avvenire ulteriore, che le storie e favole della nostra Tradizione nell’allegoria nascondono.
Indizio inequivocabile della consumazione dei tempi, è anche il solo fatto di annotare pensieri altrui misti a personali riflessioni destinate in massima parte a non essere nemmeno lette per la scomodità e disumanità intrinseca del supporto di cui ci avvaliamo, che pure, in definitiva, omologa e livella ogni riflessione a pura aneddotica.

Il potere sminuente della macchina o della sua incapacità consolatoria delle interiori afflizioni umane.

Ma davvero trovo anche utile trascrivere quanto segue: Boccaccio nel suo Genealogie Deorum, rammenta che allegoria deriva da "allon" = alieno, estraneo, dove il significato letterale è solo la scorza che riveste più profondi contenuti.
Del pari nell’albero la corteccia…la corteccia, preserva l’interno della pianta, dove nel suo centro scorre la linfa, il nutrimento utile ad ogni sua parte.

Per esempio, determinate considerazioni che si ricavano da letture o esperienze sperimentate in prima persona, ma d'altronde la stessa lettura se intimamente vissuta non è forse essa stessa un esperienza dell’anima? Insomma, ciò che intendo dire è che la mia ossessione preminente, riguarda la sostanza di un canto inudibile, epperciò astratto, ma che pure per propagarsi e trovare verità, necessariamente deve rimbalzare sui volumi delle cose: ecco dunque la sostanza, il valore indicibile dell’ispirazione poetica.

Se diamo ascolto e veridicità alle parole d’Omero, Virgilio, Apollonio Rodio e ai maggiori poeti dell’antichità il cui messaggio s’è propagato fino ai margini estremi del Rinascimento italiano, (ma si dovrebbe dire Italico) se diamo loro ascolto si comprende che solo profondamente ispirati noi comunichiamo con gli Dèi.

Gli Dèi accolgono grati i nostri slanci lirici e solo per questi l’Universo realizza la sua più intima essenza, la misteriosa forza cantata nelle Metamorfosi da Ovidio.

L’ispirazione è proprio quel fuoco segreto che da senso più vero al nostro Atanòr, perché l’Alchimia e dunque l’Arte e dunque la Poesia, non derivarono dallo strumento solo materiale dell’intelligenza.
Leggevo uno studio del prof. Catinella, dov’è scritto che Clemente Alessandrino fa derivare la parola Mito dalla greca Metos che è seme, granello, sicché ogni mito o favola antica reca in sé il seme occulto, che una volta deposto nelle profondità dell’animo, assieme a questo genera il Nume che diverremo…sempre ammesso, che saremo capaci di prenderci cura del virgulto segreto che nel fondo della coscienza lentamente matura.

Il primo divieto, che i Misteri antichi indicavano all’iniziato, era quello di non porre fine alla propria esistenza prima che questa, da sola, fosse naturalmente giunta al termine dei suoi giorni, poiché ogni momento che ci rimane da vivere, è utile a sviluppare tale segreta essenza che in noi dimora.

Mistero: senso di una cosa superiore all’intelligenza – verità celata sotto finzione – Mysterium è spiegato dal glossario latino come secretum sacrum. Cristo disse: molti i chiamati e pochi gli eletti…lo stesso, a Eleusi, assai prima, vigeva il detto che molti erano i portatori di tirso, ma pochi sarebbero divenuti Baccòi…a significare dell’estrema difficoltà che intercorre dal momento in cui il seme è deposto, alla formazione della coscienza numinosa.
Sostanzialmente, i Miti originari della creazione, credo originano dalla necessità di rivelare l’eminente verità universale attraverso una modalità che lungo il corso dei millenni non avrebbe alterato il proprio valore e che al contempo, potesse offrire più chiavi interpretative a secondo della capacità d’intendimento di quanti vi si accostassero.

Se accettiamo l’idea che prima dell’ultimo diluvio, vi fosse l’esistenza di una Civiltà evoluta, (ormai le prove vi sono e numerose) questa necessariamente doveva riferirsi ai medesimi valori d’amore e d’ingegno e, per quanto lo stravolgimento epocale in quei tempi remoti possa aver sommerso l'ispirazione originaria…penso agli immensi stravolgimenti cosmici narrati nelle favole di Fetonte o alla stessa guerra combattuta da Giove contro i Titani…comunque, i semi immortali, una volta trascorso il periodo indefinito d'oscuramento, poterono nuovamente assorbire quel tepore riposto nell’apparente vuoto cosmico, che ravvivò - ravvivò in sé - come recondita necessità, un ulteriore significato della vita, un ulteriore avanzamento della vita stessa al di la di sé, attraverso l’imperscrutabile necessità dell’ispirazione (avrei dovuto scrivere ISPIRAZIONE) appunto, i Miti.

La loro abissale commozione riecheggia nella vastità universale, il loro senso è appena soffiato o trasportato da inquieti venti siderali, che in tempi di cui non si può avere nozione, ravvivarono il seme invisibile che relega l’essere al nulla e che, in un certo senso, è come deposto nel grembo della Conoscenza.
Questo, "il seme dei metalli" degli alchimisti medievali, il lievito primordiale.

L’estrema complessità di calcoli calendariali cosmici, la profonda struttura della materia, è adombrata nell’allegoria mitologica, dove nelle alterne vicissitudini dei suoi protagonisti divini, nella loro inconoscibile sostanza, la struttura del messaggio, riguarda essenzialmente la verità di un campo energetico che connette tutta la realtà universale…non a caso a Dodona, nel tempio arcaico della Dea, anteriore a quello di Delfi, pendevano dal soffitto un gran numero di campane bronzee, che significavano proprio il valore di tale realtà diffusiva e intimo legame del tutto con il tutto, in ogni sua parte…dove una campana il vento muoveva e cento risuonavano.

Dione-Dodo = Colei che dona, che dona per amore…il più elevato prestigio del senso mitologico...intimamente congiunta alla figura di Giove (androginia arcaica) che a Dodona era chiamato Naios – dio delle sorgenti.

Quest’immensità energetica, è contenitore e ponte delle più elevate percezioni metafisiche. I primi rivelatori della divinità, furono i poeti, che erano sciamani estatici…i Miti, c’informano della possibilità di interagire con la vastità universale esclusivamente mediante il linguaggio delle emozioni, per quanto esse siano temperate sul maglio della ragione. Non per semplice sentimento di vaghezza, il lirismo è presente nel carattere degli dèi, e che essi nell’uomo lo ricercano e l’ammirano: poiché attraverso l’ispirazione noi presagiamo l’immortalità.

mercoledì 6 luglio 2011











In linea con lo sviluppo sociale e urbano Roma ha mutato la sua essenza, stravolto i suoi connotati di città “cara agli Dèi”…uso quest’espressione cosciente che potrebbe palesarsi come retorica ma intimamente per me non lo è affatto.
Illusione? Magari l’illusione aurea mi pervadesse interamente l’essere!
Beati gli antichi che si credevano degni dei baci degli immortali e che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie, che attiravano lo splendore della divinità sulle imperfezioni umane e nelle misure dei loro templi perfetti.
Coltivo come un giardiniere devoto ai suoi fiori le mie illusioni, me ne prendo cura su un terreno impoverito e malato ma cerco comunque di ravvivarle, perché le illusioni sono per l’animo quello che le corde fanno per lo strumento, convengono l’esistenza ad amabili melodie; le sole che possono davvero nobilitarci e redimerci da indistinte quanto monotone operosità o indolenze.

E’ il luogo stesso prescelto per la fondazione della città arcaica, la sua tessitura sovrapposta e stratificata in millenni di storia ad aver reso molteplice il disteso corso delle ispirazioni che qui testimoniarono l’importanza di convertire nella materia l’ideale umano teso al recupero della perduta armonia.
Non solo Roma, ma ogni antica città antica offre dimostrazioni di questi sicuri slanci lirici oltraggiati dalla disumanizzazione imperante; il degrado architettonico precede solo di pochi anni la “sovversione sintetica” dell’esistenza, perseguita per fini che rimangono occulti ma i cui effetti si palesano con sempre maggior evidenza.
La nostra qualità di vita è immiserita da ingannevoli comodità o depressa nella contraffazione mediatica dei reali scopi cui dovrebbe mirare l'esistenza per assolvere pienamente al suo significato.

Stiamo smarrendo il senso profondo delle cose, è assolutamente triste questo decadimento dei luoghi aviti ridotti a spartitraffico, perimetrati da fredde cancellate e diminuiti nel loro significato a scialbi aneddoti turistici piantonati da volgari punti di ristoro.
E' nella pigrizia dei sentimenti che l’attuale Età nera diffonde nei nostri cuori il suo senso mortifero più subdolo.

A Roma sono nato e di Roma amo rinnovare le benevole suggestioni e prestigi che sono sempre più rari a intuire e presentire.
In questi ultimi dieci anni la distonia di fondo prodotta dalla degenerazione tecnologica s’è fortemente intensificata, agiscono scansioni di frequenze assolutamente incoerenti e amplificate dalle antenne della telefonia mobile e reti wirless, che formano una sorta di copertura diafana, un coperchio elettromagnetico amplificato dai pressoché continui rilasci aerei di persistenti filamenti chimici che rendono opalino il cielo quasi ad estinguerne la sua prerogativa immateriale, la particolare curvatura prospettica conferitagli dal luogo.
Non è mai stata considerata la particolare convessità celeste della zona cinta dai Colli, questo perché la scienza profana considera la curvatura celeste, gli elementi che in essa stanno sospesi, incapaci di interazioni sensibili con ciò che sta loro sottostante, ma è una cecità assolutamente moderna; Vati e Poeti interagirono sensibilmente e sapientemente con gli elementi.

Non a caso in origine, molto prima della fondazione dell’Urbe, i suoi Colli furono prescelti per interpretare i segni degli Dèi, questo perché sono come “scrigni”, “custodi” di una memoria atavica del pianeta, puri catalizzatori di eventi prodigiosi, altari accordati al battito ancestrale del Cosmo, che solo la nostra anima immiserita non è più capace di ascoltare.

Ogni centro Sacro è preposto ad accordarsi ad una risonanza inudibile ma ugualmente comprensibile, qui il Gianicolo, il Palatino, il Campidoglio, il Quirinale, il Vaticano sono “are cosmiche” allineate su determinate frequenze che entrano in profonda dissonanza con l’invasiva copertura elettromagnetica artificialmente indotta.
La variazione di frequenza implica una nostra intima mutazione.
Per questo stesso motivo, ad esempio, il buco che vorranno fare nel Monte di San Michele in Val di Susa è doppiamente pericoloso e a tal proposito rimando all’articolo di Fausto Carotenuto http://www.disinformazione.it/valdisusa.htm.


Roma è Amor, ispirazione sublime e compresa da quel magnifico legislatore che fu Numa: allegorico uomo metadimensionale pervaso di puro Erotismo, di Casto Erotismo, l’ultimo Re che lambisce e sconfina il terreno del suo giardino nei territori dell’Età mitica per conferire in lieta intimità coi Numi divini ed in particolare con la Ninfa Egeria.
Mi sembra di scrivere pervaso di Furor Gentile, presumo di elevarmi internamente in me stesso, un po’ come chi nell’esercizio fisico esegue un sollevamento alla sbarra dopo un lungo periodo d’inattività, e sostenendo a stento la tensione mi protendo appena su un piano qualitativamente superiore che intuisco essere la mia dimensione originaria; questa presa cosciente anche se lievemente intuita e ancor più flebilmente comunicata tuttavia rappresenta un momento solenne dell’esistenza.
Solo il disincanto può estirpare dalla nostra natura profonda l’unica possibilità che abbiamo per essere migliori a noi stessi.

Scrisse in età già avanzata Goethe: “La parabola della mia vita terrestre culmina in Roma, come compimento di un appassionato desiderio nutrito per lunghi anni.
Io sono qui, e di più non posso dire!”

giovedì 16 giugno 2011

GLI OBELISCHI ANTENNE COSMICHE






















Ricerca desunta da:

GLI OBELISCHI DI SISTO V ° E LA SOPRAVVIVENZA E L’USO DEI
GEROGLIFICI EGIZIANI NEL
RINASCIMENTO
Di Ilaria Arpa



I simboli non sono solo una semplificazione grafica, ma come i suoni e le lettere egiziane
sono cellule cariche di energia, che aspettano solo di essere attivate.
All’uso “ermetico” ed arcano dei geroglifici fanno riferimento molti umanisti e artisti dal
‘500 al ‘700. Costoro vedono nel geroglifico la presenza magica del segno sacro, che
contiene in sé l’armoniosa presenza delle forze del cosmo. Tra le fonti di opere famose come gli Emblemata di Alciato e l’Hypnerotomachia Poliphily di Francesco Colonna, c’è il trattatello di Horapollo gli HIEROGLYPHICA.

L’opera risale ai primi secoli del cristianesimo, e fu riscoperta dall’Accademia platonica di Marsilio Ficino nel 1422, quando fu portata da Andro a Firenze da CristoforoBuondelmonti.
Il trattato suscitò grande interesse, perché dal V° sec. Si era perse le tracce di una lettura ragionata dei geroglifici.
Gli Hieroglyphica si compone di due libri che analizzano 189 geroglifici ai quali l’epoca tardo ellenistica e i primi pensatori cristiani (come Plotino e Clemente alessandrino) attribuiscono un complesso significato di tipo teologico e morale.

Nessuna meraviglia che i neoplatonici abbiano considerato per questa via l’Egitto come depositario di un primo messaggio divino, affidato ad un’espressione criptata intesa appieno solo dopo un lungo
tirocinio sacerdotale.
Studiosi e artisti come Alberti e Pietro Valeriano idearono complessi sistemi di geroglifici con i quali esprimere concetti assoluti, al di là della caducità di lingue e alfabeti.
Così i geroglifici diventano quella garanzia del “dopo morto vivere ancora” cui aspirava l’Umanesimo e parallelamente si prestano ad essere una sorta di contenitore per le più assurde e stravaganti idee di chi li interpretava.
La diffusione del pensiero ermetico e delle pratiche alchemiche anche nelle roccaforti del
cattolicesimo (Filippo II° fece edificare l’Escorial da Juan de Herrera, amico e mago
personale del sovrano, per il quale compiva regolarmente pratiche occulte, legate all’astrologia e alla medicina) rende possibile l’utilizzo del linguaggio geroglifico per pratiche magiche nell’Urbe, centro della crhistianitas.
Una delle modalità di trasmissione di questo linguaggio da “iniziati” è praticamente fornita dagli obelischi romani.

Dei molti che sono presenti nella capitale (tredici in tutto) quattro interessano particolarmente: sono quelli innalzati tra il 1585 e il 1590 da SISTO V° ; tolti dall’oblio dei secoli, dopo che erano stati
abbattuti dalla furia e dall’ignoranza dei barbari prima e dei cristiani poi.
Questo pontefice con il progetto dell’architetto Domenico Fontana, avviò un’importante ristrutturazione urbanistica con l’apertura di ampie strade, piazze e il rifacimento della rete idrica, che avrebbero agevolato l’accesso dei pellegrini in città.
Ma al di là dell’operazione esteriore conviene riconsiderare l’utilizzo dei quattro obelischi alla luce della loro provenienza e collocazione.
L’obelisco LATERANENSE (il più alto e il più antico) fu portato a Roma da Costante II°, che lo volle come decorazione del Circo Massimo nel 357 d.C. ma già da mille anni ornava il tempio di Amon a KARNAK, dove il faraone Tutmosi III° lo aveva fatto erigere nel XXV° secolo A.C.

Anche l’obelisco FLAMINIO decorava il Circo Massimo, ma proviene da Eliopoli dove sorgeva davanti al tempio del Sole, è il secondo più antico di Roma (Ramsete II° - XIII° sec. A.C.).

L’obelisco VATICANO (senza geroglifici) e quello solare davanti al Parlamento da Eliopoli.

Gli egizi ritenevano che gli obelischi sacri al dio Sole, il cui principale centro di culto era proprio Eliopoli.

Le sue origini al 2900 A.C., ma raggiunse il suo massimo splendore sotto il nuovo regno, quando Ra detto poi AMON- RA divenne la principale del Pantheon egizio. Eliopoli era definita “pilastro settentrionale”, mentre l’antica Tebe (Karnak) era il “Pilastro Meridionale” e anche qui Amon era sovrano.
Queste strutture verticali (“Obeliskos” in greco significa “Spiedino”, in arabo il suo corrispettivo è “Messalah”, ovvero “Grosso ago”) al pari delle antiche rocce megalitiche possono essere paragonate ad ANTENNE che concentrano le forze positive del cosmo (in particolare del Sole e della Luna) affinché agiscano positivamente sullo Spirito della Terra.

In Egitto sono ben due le LINEE SINCRONICHE che si incontrano nei pressi di Karnak, e proprio a Karnak termina un importante LEY (linee energetiche) che unisce Carnac in Bretagna, Lione assieme ai Fori Imperiali di Roma.

Queste linee seguono un andamento più o meno parallelo che va Nord Ovest a Sud Est, la direzione della salute, della fertilità e del benessere.

Gli obelischi che furono portati a Roma dopo la conquista dell’Egitto seguirono senz’altro il successo delle religioni misteriche locali, importate nell’Urbe; e se è vero che tre di essi (il Flaminio, il Lateranense e quello di Piazza Montecitorio) furono utilizzati come imponenti monoliti decorativi per il Circo Massimo e il Campo Marzio e poi successivamente abbattuti; quello collocato nei pressi del vaticano è rimasto nella sua sede originaria durante tutto il Medioevo.

La collocazione pertanto non può essere casuale; al di là delle motivazioni propagandistiche, possiamo avanzare l’ipotesi che Sisto V° avesse tentato di catalizzare e sfruttare lo scorrimento
energetico positivo di un’importante LEY; tant’è vero che unendo idealmente i quattro obelischi sistini si forma un quadrilatero che comprende la zona dei Fori Imperiali.

Sua finalità pertanto potrebbe essere stata quella di costruire (con un progetto ben più complesso e ambizioso) una LINEA SICRONICA MINORE convogliando l’energia spirituale dei fedeli all’interno di un "perimetro spirituale" dove non a caso, ancor prima della fondazione di Roma stessa, la sacralità è testimoniata in tempi assai remoti, e ci riferiamo alle culture del Paleolitico superiore (40 – 10.000 anni fa) che lasciarono tracce della loro presenza in queste zone altamente simboliche dell’Urbe quali l’area della Vittoria, il Colle Palatino, il Colle Quirinale.

Di conseguenza Sisto V, nutrito dalla cultura ermetica rinascimentale, opportunamente predilesse proprio i quattro obelischi dalla storia millenaria e prestigiosa: i pilastri del dio Sole ad Eliopoli e a Karnak, come catalizzatori del flusso energetico – sacrale del luogo eletto;
intendendo pertanto negli obelischi stessi i "sorveglianti" attivi del rinnovamento dei tempi, aghi granitici che favoriscono nell’uomo la sua partecipazione alla Rivelazione Divina.

Una diffusa conoscenza delle dottrine ermetiche che mira ad attivare tramite un linguaggio di simboli le corrispondenze tra macro e microcosmo, permettendo all’uomo di compiere quell’opera di perfezione interna alla Natura stessa senza forzarne le sottili rispondenze ma bensì di magnificarne la risonanza armonica per mezzo di un immensa liturgia vivente, una liturgia dell’ora intesa come celebrazione cosmica per le sue evidenti corrispondenze astronomiche e dunque, di una definita Conoscenza Primordiale che intese Roma come Centro Metafisico dell'Occidente.

L’universalità tradizionale offerta dal “Septimontium” così come dai “Sette Re” , quali simboli direttamente congiunti alle Sette Stelle dell’Orsa, costellazione boreale, circumpolare, quale riferimento ideale della Dimora primigenia posta a Nord prima dell’instaurarsi dell’obliquità eclittica della Terra e di una diversa misurazione del tempo di cui il calendario romuleo conservò sedimentazione certa nel suo sistema decimale (Dicembre decimo mese).

In Roma risiede l’identità dell’Occidente (non modernamente inteso) essa fu e probabilmente è ancora centro esperienziale d'elezione per una memoria ben precisa e radicata in eventi ancestrali che qui individuano uno tra i più significativi degli “Specchi Oracolari del Cosmo” in cui il corso stesso del tempo, connesso allo svolgimento dell’attuale Ciclo storico, "riflettendosi" e scorrendo in questo luogo potesse "purificare le sue acque" mediante l'azione "filtrante" del Rito...così è...inutile domandarsi del perché sia svanita dal cuore dei più tale magnifica percezione o consapevolezza profonda, tale dimenticanza, che assume sempre di più i connotati di un tragico oblio, rientrerebbe tra i misteri insolvibili dell'Età attuale ( Kali-yuga) connessa al maggior Ciclo che la contiene.


LINEE SINCRONICHE: sono grandi flussi di energia in grado di catalizzare le forze presenti nel cosmo, ma non hanno nulla a che fare con le linee magnetiche terrestri, né sono influenzate da pianeti e stelle vicine.
Possono scorrere al di sopra o al di sotto della superficie terrestre, ad oggi non è chiarita la funzione che hanno con il nostro DNA o che rapporto abbiano con la stessa "materia oscura" dell’Universo.

LEY LINES
:
La loro identificazione in età moderna si deve ad Alfred Watkins.
Nel 1920, questi stava percorrendo con la propria auto le strade di Blackwardine, nell’Herefordshire, in Inghilterra, quando, osservando la cartina, si rese conto che moltissimi siti preistorici, in quella zona per lo più megalitici, e edifici di culto erano allineati e collegabili tra loro con precise linee rette, costituite, anche nella realtà, da piste, sentieri, di circa due metri di larghezza. Dopo una serie di approfondite ricerche, che sfociarono nei volumi Early British Trackways e The Old Straight Track, Watkins giunse alla conclusione che quelle linee erano risalenti al periodo pre-romanico, forse (ma qui eliminerei il dubbio) al neolitico; che fossero poi state ricalcate nell’età del bronzo e del ferro e preservate in modo occasionale durante la cristianizzazione, giungendo quasi intatte fino a noi.

Una fondamentale LEY LINES passa per L'Aquila che geograficamente è sistemata esattamente su uno di questi nodi magnetici, anzi, su uno dei più potenti del mondo dal momento che è al centro della linea che lo attraversa, un segmento che parte da Giza e arriva a Stonehenge, dalle piramidi ai monoliti.
Il tracciato attraversa in linea retta Giza, Castel del Monte (dove c’è il castello- tempio di Federico II), L’Aquila, Chartres e appunto Stonehenge.

Le coordinate geografiche della citta de L'Aquila sono: lat. 42,21 – long. 13,23. La somma della latitudine è 9, la somma della longitudine è 9, vale a dire “99”, l’enigmatica cifra inscindibilmente legata con la città fondata da Federico di Svevia.
L’Aquila è la città delle 99 chiese, 99 fontane e 99 piazze; prima del rovinoso terremoto il campanile della torre civica ogni giorno risonava di 99 rintocchi.
Curiosa coincidenza è che la somma cabalistica della data del sisma che l'ha distrutta dia il sottomultiplo di 9 che è 3.

LINEA SINCRONICA MINORE: quando una linea sincronica affiora sulla
superficie terrestre può essere contattata più facilmente grazie alle “minori” o “secondarie”, costruite con forze legate al pensiero umano.
Esse influenzano gli esseri umani con informazioni che ricevono dalle grandi linee.
Il loro scorrimento non è influenzato da nessuna una forza terrestre, ma è influenzato dalla presenza dei fiumi, emersi e sotterranei e alcuni luoghi elevati hanno la tendenza a diventare antenne nei loro confronti.

Concludendo
Benché l’urbanizzazione crescente sembri disperdere i prestigi più elevati di Roma livellandola ai ritmi profani di una qualsiasi metropoli moderna gli obelischi che ne puntellano il perimetro del “cuore sacrale” avrebbero tutt’ora la funzione di “rallentarne” il battito accelerato, le sue pulsazioni sconnesse dall’originaria ispirazione Romulea.

Riassumendo brevemente, il più alto è quello che troneggia in Piazza San Giovanni in Laterano; è imponente ed esalta tutta la potenza del Faraone che lo commissionò: Tutmosi III; è alto 32,18 metri ed ha una base di tre metri per lato con un peso di 340 tonnellate; il basamento e la croce misurano 15 metri di altezza perciò l'altezza complessiva del monumento è di oltre 47 metri; è in granito rosso, pregiatissimo e utilizzato, all’epoca, solo per l’esaltazione della grandiosità.
Questo obelisco è anche il più antico di Roma, fu innalzato nel XV secolo a.C. ma fu portato a Roma da Tebe nel IV secolo d.C. per adornare la spina del Circo Massimo.

Il secondo per altezza - 23,20 metri – è l’obelisco che si trova a piazza San Pietro; lo portò a Roma da Eliopoli l'imperatore Caligola.
Dovette usare una nave gigantesca fatta costruire appositamente che, poi, l'Imperatore Claudio utilizzò come isola artificiale quando costruì il suo porto di Ostia facendola trainare al largo per riempirla di calcestruzzo affinché affondasse per erigervi sopra il faro.
Su questo obelisco sono nate molte leggende popolari: si affermava che la originaria sfera – un globo bronzeo - contenesse le ceneri di Giulio Cesare e che la croce che sormontava l’emblema della Famiglia Chigi che Papa Sisto V fece sistemare sulla sommità al posto del globo, contenesse una reliquia, un frammento della croce di Gesù.

L’obelisco di piazza San Pietro è un obelisco del tutto particolare: non è coperto da iscrizioni egizie, e nemmeno da geroglifici perché è stato realizzato dagli antichi romani, mentre erano in Egitto, su commissione dell’Imperatore Caligola.

Intorno all’obelisco ci sono sedici pietre ovali - sostituite nell’estate del 1968 perché quelle vecchie erano ormai consunte dal calpestio di milioni di turisti - che sono gli elementi di una grande Rosa dei Venti che corre intorno al monumento. C’è, poi, una fila di pietre tonde, tuttora illeggibili: ognuna recava inciso un segno zodiacale e l’obelisco fa da gnomone segnando, con l’ombra, i movimenti del sole nello Zodiaco.

L'obelisco che oggi si trova in Piazza del Popolo è il secondo per antichità fra gli obelischi di Roma - insieme al basamento supera i 36 metri - fu fatto costruire da uno dei più potenti e famosi Faraoni, Ramesse II e fu innalzato ad Eliopoli più di tremila anni fa e poi portato a Roma da Augusto dieci anni prima della nascita di Cristo e sistemato sulla spina del Circo Massimo: un luogo di grande audience che accoglieva quasi quattrocentomila persone che potevano glorificare la potenza dell’Imperatore ed ammirare l’imponenza del monumento intorno al quale, per oltre cinque secoli, si sarebbero svolte le corse delle bighe. La base è ancora quella originale antico romana; qualche pezzo mancante venne integrato nel corso dei restauri nel tardo '500.
Su due lati opposti un'iscrizione (oggi molto sbiadita) ricorda l'imperatore Ottaviano Augusto, definito "divino figlio di Cesare", che "...avendo ridotto l'Egitto in possesso del popolo romano, dedicò [il monumento] al Sole".

Sui due lati della base ancora privi di testo furono aggiunte delle iscrizioni commemorative: una di esse dice che il papa "trasferì l'obelisco dal Circo Massimo, dove l'imperatore Ottaviano Augusto l'aveva dedicato con empio rito al Sole e dove giaceva come miserevole rovina, restituendogli la forma originale e dedicandolo alla Croce".
L'iscrizione dal lato opposto, che guarda verso la chiesa di Santa Maria del Popolo, è quasi un gioco di parole sulla primitiva dedica del monumento, perché recita: "sorgo più augusto e felice davanti al tempio sacro di colei dal cui utero virginale, durante il regno di Augusto, nacque il Sole di Giustizia" (Ottaviano Augusto era imperatore all'epoca della nascita di Cristo).

Un altro obelisco ricco di storia è quello di Montecitorio e che proviene da Eliopoli: risale all'età di Psammetico II - 594/588 a.C. - e si trova davanti alla Camera dei Deputati; fu portato da Augusto con lo scopo di farne uno gnomone, cioè l'asta di una gigantesca meridiana larga circa 110 metri da destra a sinistra e 60 metri circa dal basso all'alto che si estendeva in Campo Marzio: una immensa piazza tutta coperta con lastre di travertino contenente una complessa serie di tacche di bronzo con scritte e segni zodiacali; frammenti di questi materiali sono stati trovati proprio sotto i palazzi viciniori.
Qui, l’obelisco funzionava come una meridiana posta in modo da far cadere la propria ombra nel centro esatto dell’Ara Pacis nel giorno del compleanno dell’Imperatore Augusto.
Scrive Plinio, già trent'anni dopo la sua posa, che questo grande orologio non segnava l'ora esatta "... salvo che non fosse la terra a spostarsi o, fosse il sole che avesse mutato il suo corso.
L’obelisco fu sistemato davanti a Montecitorio nel 1789 e la sua altezza è di 22 metri senza il basamento; venne aggiunto, alla sommità, un globo bronzeo forato nel centro in modo che il raggio di luce che fosse passato attraverso il foro si sarebbe posato sopra le varie tacche infisse sul pavimento della piazza per ricreare il presupposto della meridiana.
Questa nuova destinazione - nonostante il non buon funzionamento - costituì il "centro astronomico” di Roma.