lunedì 17 marzo 2014

IEROBOTANICA RITUALE E FITONIMIE SACRE GRECO-ITALICHE


IEROBOTANICA RITUALE
E FITONIMIE SACRE GRECO-ITALICHE
di Mario Giannitrapani

Gli alberi sono santuari (H. Hesse)

L’albero è carico di forze sacre, dice l’insigne storico delle religioni, Mircea
Eliade “perchè è verticale, cresce, perde le foglie e le ricupera, e di conseguenza
si rigenera perchè manifesta una realtà extra-umana” (1). L’atto stesso
della fumigazione rituale quindi, anche per analogia con la immobile verticalità
dell’arbusto, rappresenta da sempre un veicolo diretto, verticale e
prioritario della comunicazione divina e dell’offerta sacrale. Grandi alberi,
boschi e foreste insieme ad altri elementi naturali quali sorgenti, laghi, fiumi,
grotte ed alture, furono appunto tra i primi e più importanti luoghi di culto,
come diverse indagini archeologiche hanno da tempo verificato (2). Un’antica
preghiera lituana infatti così recita: “[...] Concedimi di piantare sempre
alberi, perchè gli Dèi guardano con benevolenza coloro che piantano alberi
lungo le strade, in casa, nei luoghi sacri, agli incroci [...]”. (1)

Appunti per un’Etnobotanica “cultuale” dell’età classica

Haec (arbores) fuere numinum templa,
priscoque ritu simplicia rura etiam
nunc deo praecellentem
arborem dicant (Plin. N.H., XII, 3)

Un rapporto molto intenso è esistito tra le divinità elleniche
(soprattutto Zeus, Apollo, Dioniso, Artemide, Cibele),
le vette montane ed i luoghi caratterizzati da intensa
vegetazione: a Creta, i primi templi, come νεμοι furono probabilmente
situati sulla cima delle montagne divinizzate, ossia i
santuari alberati e boscosi delle alture raffigurati nell’iconografia
minoico-micenea. Un bosco di cornioli (Cornus mas), sul monte
Ida che domina la piana di Troia, era sacro ad Apollo Καpνειος:
furono questi gli alberi che i greci abbatterono per costruire il
celebre e sacrilego cavallo, provocando l’indignazione del Dio,
cui cercheranno poi di espiare con l’istituzione delle feste doriche
chiamate Καpνεια. Lo stesso Enea sacrificante, per coprire le
are di rami frondosi, dall’arbusto che strappò per primo, il corniolo,
vide colare gocce di sangue nero che l’albero stesso, per
prodigio, al terzo tentativo gli rivelerà essere appunto Polidoro
figlio di Priamo, lì sepolto (Virg., Aen., III, 22-46).
Con il legno del corniolo furono quindi costruite aste, giavellotti, frecce e lance,
tra cui la stessa che Romolo (Plut., Vita Rom., XX) scagliò dall’Aventino
sul Palatino, da cui nacque il prodigioso arbusto, poi
venerato come una delle più sacre e sante memorie dell’Urbe; la
medesima lancia usata dai Feziali nel rito magico della dichiarazione
di guerra, come noto, era intagliata proprio in questo
durissimo legno. Furono pertanto alberi e boschi come luoghi
sacri e numinosi appunto, ad ispirare la costruzione dei primi
templi nell’antichità classica: i tronchi vennero scolpiti nelle
colonne e le loro chiome divennero capitelli sempre più complessi.
Ancor più esplicito ed esaustivo un celebre passo letterario
inerente la presa di auspici nello spazio pomeriale: “[...] in hoc
templo faciundo arbores constitui fines apparet et intra regiones qua
oculi conspiciant [...]” (Varro L.L., VII, 8). Gli stessi scavi archeologici
hanno così confermato larga presenza di querce e faggi, frequentemente
usati nelle sepolture ad inumazione scoperte a
Gabii, Roma e Decima, cavati a foggia di sarcofago o tagliati a
costituire il letto funerario: il graticcio della pira di Pallade, sodale
di Enea, era appunto costituito da rami di quercia (Virg., Aen.,
II, 63-65), così come i Pitagorici usavano avvolgere i cadaveri in
foglie d’ulivo, pioppo nero e rami di mirto (Plin., N.H., XXXV,
160). La quercia (i.e. DEREU-) in particolare, come noto, ha
peraltro ispirato numerosi miti relativi all’origine dell’uomo ed
è stato l’albero sacro per eccellenza del mondo greco-latino,
subentrando, tuttavia, sul piano simbolico-spirituale, all’ancor
più “antico” ed arcaico faggio (Fagus sylvatica). Quest’ultimo
infatti era sistematicamente presente nei boschi latini, specie sui
Colli Albani: a Roma, lo stesso lucus Facutalis, ossia un bosco di
faggi consacrato a Giove, sin dal V sec. a.C. può considerarsi
quale “relitto” di un clima più fresco di età più antiche. Indagini
paleoclimatiche hanno difatti appurato nell’area laziale dell’età
del bronzo, un clima atlantico e sub-atlantico evidenziato dalla
presenza di boschi mesofili con prevalenza proprio di faggio.
Quest’ultima specie, in virtù di seriosi cambiamenti climatici, è
oggi regredita appunto verso siti a maggiori altitudini. Poteri
divinatori ed oracolari ab ovo quindi, furono attribuiti a determinati
alberi, a specifiche piante ed a particolari essenze, non per
caso sacre a determinate divinità; diversi epiteti e teonimi ne
riflettono l’importanza sacrale, come per esempio l’arcaicissimo
Juppiter Facutalis (Faggio, > i.e BHAG/BHUG-) e l’antico Juppiter
Vimineus (>Salix Viminalis = vinco o vetriceda, i.e. SeL(I)K-WEIT),
i cui rispettivi templi e santuari sorgevano proprio sui colles
Fagutal/Esquilino (o per altri il Celio), ricoperto di Faggi, ed il
Viminalis, ricoperto appunto di Salici. Dello Giove Facutale è
inoltre importante tener presente le analogie e le equivalenze
mantico-divinatorie con lo Zeùs di Dodona ed il Faunus latino:
un Dio oracolare i cui responsi erano dati per mezzo dello stormire
degli alberi che cingevano il suo santuario (Varro, L.L., V,
152; Plin. N.H., XVI, 15, 1), così dimostrando inoltre come i luci
fossero i luoghi propri di vari riti inerenti la divinazione. Ulisse
infatti consulta come oracolo il fogliame di querce sacre a Zeùs
(Omero, Od., XIV, 327); la dendromanzia a Dodona, per Erodoto,
era desunta dal fruscio prodotto appunto dal movimento del
fogliame ed interpretata dalle sacerdotesse della Dea Dione
(divinità cretese dei monti alberati) dette Peleiadi o Peristere,
così come i profeti Selli, per Callimaco, interpretavano il curioso
brontolio del tuono, dedotto dai suoni prodotti dal tintinnio dei
paioli bronzei, forse appesi ad alberi e mossi dal vento. Lo stesso
Dio Dioniso, cui era attribuito l’accrescimento degli alberi da
frutta, era venerato come δενδpιτης (protettore di alberi), ed in
Beozia era detto ενδενδpος (colui che è o appare nell’albero):
come fatto notare dal Brosse, si trattava di un vero e proprio Dio
della linfa, cui erano sacre le piante della vite e dell’edera, piante
affini e sorelle, sebbene contraddistinte da un’opposta polarità.
Una statua di Dioniso sarebbe stata trovata nel tronco di un
platano spezzato dal vento, secondo un’antica leggenda di
Magnesia al Meandro, e nel legno di fico furono intagliati sia una
maschera rituale del Dio nel suo culto a Nasso, sia il fallo rituale
portato in processione nelle Falloforie. L’epiteto di Dioniso
quale Bpομιος (= frusciante, fragoroso), allude appunto alla sua
presenza percepita dallo stormire del fogliame sacro e dal mormorio
della foresta; il Dio era anche detto Kισσος (= edera, viticchio),
Ληναιος (= torchio), Fleonte/φλοιος (= verdeggiante, la
parte viva sotto la corteccia) Οινος (= Oineo/Vineo), venerato
appunto come Dio dell’edera e della vite selvatica, proprio perchè
fin dall’origine fu un misterioso Dio della linfa, ossia del sangue
delle piante. Roma stessa, come noto, fu detta da Plinio una
“città del mirto” – “[...] fuit myrtus ubi nunc Roma est” - anche per
l’enorme rilievo che ebbe l’antica ara della divinità del mirto
(Myrtus communis) nota come Venus Myrtea, cluacina o purificatrice;
lì si purificavano appunto romani e sabini sin dall’episodio
del famoso ratto, vicino l’antico tempio di Quirino (dove “sacrae
fuere myrti duae [...] altera patricia appellata altera plebeia [...]”; N.H.
XV). Questa pianta era infatti sacra a Venere anche perchè la Dea
si sarebbe rifugiata proprio in un boschetto di mirto dopo la sua
nascita (Ov., Met., II, 234). Lo stesso Apollo fu onorato come
Μυpτωος (C.I.G III, 5138), in una località libica denominata
“Poggio del mirto” (Apoll. Rhod. II, 504; Pind., Phyth. IX, 65):
corone di mirto portavano poi, gli iniziati ai misteri eleusini,
simbolo di ingresso nei mirteti elisii (Aristof., Rane, 330); un
ramoscello di mirto infatti, sacro a Demetra, simboleggiava il
prolungamento della vita e del suo principio nel difficile passaggio
nell’Ade.
In verghe di betulla, come noto, erano formati i fasci retti dai dodici
littori, quale emblema del potere sacrale e coercitivo dei magistrati
romani. Di enorme rilievo inoltre, tra le tante e diverse piante
officinali, proprio la verbena (Verbena officinalis), ritenuta essere
una pianta sacra e magica per eccellenza, ossia la Hiera Botane di
Plinio (N.H., XXV, 105-107) e la Verbenaca di Dioscoride (De Mat.
Med., IV, 57), dagli straordinari poteri: è difatti con essa che si purificavano
le case e si spazzavano le are sacre a Giove, “Iovis mensa
verritur”. Per Mario Servio Tullio (IV-V sec. d.C.), scoliaste di Virgilio,
quest’erba è proprio la Vena Veneris, ossia l’ispirazione di
Venere, la pianta sacra, l’Herba Veneris per eccellenza, con cui s’inghirlandavano
gli stessi sacerdoti Feziali, mentre per altri l’etimo
deriverebbe dal celtico ferfaen (fer > portar via, faen > pietra) (3). Gli
antichi arcadi inoltre ritenevano essere stati un tempo querce,
come nei boschi di querce, sacri a Giunone, viveva selvaggiamente
un popolo forte nato appunto dai tronchi di rovere duro (Virg.,
Aen. VIII, 314-318; 347-354). Dal frassino si credeva esser nata invece
la terza stirpe di mortali, quella di bronzo, per Esiodo (Opere e i
Giorni, 143-156). Sono state poi numerose le varie corone auree le
cui iconografie ripetono foglie di vari alberi, tra cui proprio la quercia,
l’ulivo, l’edera, l’alloro ed il mirto, che rimasero indubbiamente
tra le piante più rappresentate. Ai tempi di Romolo infatti le
prime corone civiche si fecero proprio con le foglie del leccio (Quercus
ilex) o elce (Plin., N.H, XVI, 11); impiegate nella sfera cultuale,
militare, civica e funeraria, le corone sottendono difatti la centralità
e l’enorme rilievo che gli alberi ebbero in ogni aspetto della vita
dell’uomo antico: una recente indagine ne ha pertanto contestualizzato
le specifiche divinità di appartenenza nel mondo etrusco,
anche in virtù delle singole foglie rappresentate (4). Inghirlandati
con foglie di tasso (Taxus baccata), erano i tori neri sacrificati ad
Ecate: un albero dall’indubbia valenza infera, con cui, tuttavia -
forse proprio per alludere al duplice simbolismo morte/immortalità
– si cingevano le tempie i sacerdoti ad Eleusi; nel suo legno
erano spesso intagliate le tavolette d’esecrazione, i simulacri e i
bastoni dei Druidi. Due re celti degli Eburones (= uomini del tasso),
secondo Cesare, si diedero la morte infatti avvelenandosi proprio
con l’alcaloide diterpenico di quest’albero, la tassina, contenuto
nelle foglie e nei semi con cui, probabilmente gli stessi Galli, per
Strabone, avevano l’abitudine di avvelenare le loro frecce. Anche i
toponimi antichi, come noto, riflettono l’enorme importanza sacrale
che gli alberi hanno sempre rivestito nell’antica geografia del
paesaggio: il mons ed il lucus Larum Querquetulanus, il bosco sacro
dei Lari dei querceti, la porta Querquetulana, i Querquetulani, dalla
quercia; il Fagutal, dai faggi, l’Aesculetum, dagli ischi/querce, la vallis
Myrtea, dai mirti; Laurentum, i Laureta/Loreta dell’Aventino, i Laurentes,
la silua e la palus Laurentina, dal lauro, così come Ficulea e
Ficana, dai fichi e Pometia, forse, dal melograno o dal melo, come
l’Elicona, per alcuni etimologisti, presunto monte dell’edera.
Anche gli oracoli di Praeneste erano resi tramite lettere
misteriose incise sulla corteccia di quercia, l’albero divino degli
oracoli e della saggezza; le stesse foglie di alcuni alberi pertanto
furono utilizzate per i diversi responsi oracolari (5). Difatti un
grande albero, fece notare lo studioso Kaiti, crescendo lentamente
possiede un’aura assai intensa e potente, ed una sua peculiare
“personalità” così forte da esser esteriorizzata, sul piano sottile,
nella sua particolare impronta che conferisce all’ambiente circostante
(6). Tuttavia è necessario, a volte, fare attenzione ad inevitabili
luoghi comuni sui culti degli alberi o su religioni naturalistiche,
generalizzati per tutto l’arco della preistoria europea. Infatti, dall’età
del bronzo agli inizi dell’età del ferro, l’Europa occidentale ha
conosciuto soprattutto culti astronomici e solari e, come di recente
è stato fatto rilevare, “les traces d’un culte de l’arbre sont extremament
rares [...]. Le bois sacré ne sarait apparu que progressivement
et tardivement” (7). Una valenza guerriera ed iniziatica del culto
dell’albero presso gli antichi germani, si può poi evincere da un
passo dello stesso Tacito in cui “Effigies et signa quaedam detracta
lucis in proelium ferunt” (Germ. VII). Il Drunemeton era quindi il
boschetto sacro di querce (greco δpυς < i.e. Dry-), luogo di riunione
ed incontro delle tribù celto-galate che, in un senso più ampio,
può ritenersi anche un vero tempio druidico in mezzo alla foresta.
Proprio uno di questi boschi sacri ai celto-druidi, quello di Messaliotes
vicino Marsiglia, è l’insieme di alberi che Cesare ordinerà di
abbattere, dopo aver lui stesso per primo compiuto il sacrilegio di
tagliare con una scure un’altissima quercia, avendo già osservato
alcuni particolari scrupolosamente riportati da Lucano (Fars. III,
399-429; 436-437). Così anche il console romano Svetonio Paolino
fa distruggere nell’isola di Mona (Anglesey) i boschi sacri dei Britanni,
ove la regina Budicea fece sacrificare alcune matrone romane
per propiziare l’imminente battaglia contro le legioni romane (Dio.
Cassio, Stor. Rom., LXII, 6, 7; Tac., Ann., XIV, XXX).
La Silua: la foresta iniziatica delle origini
Prima ancor che al bosco ed al singolo albero, è al tema della
selva primordiale, la silua, e quindi alla foresta iniziatica delle
origini, l’υλη (Herod. V, 23) incontaminata, non alterata dall’uomo che è possibile
risalire per le più antiche e remote origini preistoriche inerenti la presenza di
Numi ed Enti che abitarono appunto determinati luoghi.
Non per caso anche “l’exposition du premier roi, dans la foret est un thème
légendaire extremement répandu tout autour de la Méditerranée centrale et orientale” (8).
Oltre un centinaio di esempi infatti, già censiti dagli
studiosi, inerenti la nascita, il rifugio in grotta, l’associazione ad
un albero, cui a volte la culla dell’infante re/Dio è sospesa, l’infanzia
stessa nella foresta, si sviluppano intorno ed in stretta
sintonia con foreste primitive e selvagge che preesistono e condizionano
spesso i più arcaici e remoti cicli delle diverse mitologie
aborigene. Tra i diversi esempi cui la critica storiografica
ha recentemente destinato maggior attenzione, sono infatti da
menzionare, proprio per le analogie simboliche con la foresta, la
figura del re albano Silvius, (Liv. I, 3, 6-8; Dion. Hal., I, 70, 1-3;
Fest. 460, 7 L; Verg., Aen. VI, 763-766) eponimo della medesima
dinastia, il suo discendente Romulus (Liv. I, 3, 11; IV, 7;
Dion.Hal., I, 76; III, 79; X; Plut. Rom., 3-4), primo re romano, Caeculus
(Verg., Aen. VII, 678-681) re e fondatore di Praeneste, nonché
lo stesso ζευς Iδαιος (< ‘Yλαιος<υλη), il cui epiteto preellenico
(Hesych., I, 184 L), per alcuni studiosi, è da ritener essere
sinonimo appunto di υλη (ιδη>υλη). Così anche Siluanus/Selvans,
titolare di un bosco sacro presso Caere (Verg., Aen. VIII,
597-602), sembra rimandare ad etimologie consimili
(Siluia<Iδαια) sempre inerenti la dimensione della “selva selvaggia”
(silua/ιδα/υλη), cui possono essere accostati derivati
analoghi (siluius/ιδαιος/υλαιος). Proprio una voce creduta di Silvanus
(Liv. II.7, 2; Val. Max. I, 8, 5) o per altri di Faunus (Dion.
Hal. V, 14, 1), fu quella che annunciò ai romani la vittoria sugli
etruschi presso l’Arsia Silva – la cui ubicazione esatta rimane
tuttora sconosciuta - nell’ambito della guerra scatenata dal
detronizzato Tarquinio il Superbo (509 a.C.); prima ancora lo
stesso re Anco Martio avrebbe conquistato la Maesia Silva sottraendola
ai Veienti (Liv., I, 33, 9), così ampliando fino alla costa,
sul lato destro del Tevere, il dominio romano. Celebre inoltre la
Silva carnuta e la sua enorme estensione dove, secondo Cesare
(De Bell. Gall., VI, 13, 10), si radunavano ogni anno i druidi. Le
stesse Suleviae, insite nel cuore di foreste ed all’ombra di vecchi alberi, erano
credute essere divinità silvestri misteriose il cui culto, protrattosi in quello
seriore delle fate, è attestato dalla Dacia fino in Bretagna. Il tema della foresta
primordiale quindi, con il suo carattere “terrifico”, le cui entità “numinose” sono
fuori da ogni tipo di controllo “umano”, è un luogo prescelto
delle predizioni oracolari, delle apparizioni e delle voci, delle
ierofanie strictu sensu (9).
Dalla foresta plio-pleistocenica alla flora protostorica
Queste dense foreste “primordiali” che ricoprivano rilievi, pianure
ed aree lagunari sin dalla fine del Pliocene (2.000.000 d’anni)
- in base alla documentazione paleobotanica – è bene considerare
che erano per lo più costituite sia da conifere che da caducifoglie,
in gran parte scomparse dalla flora spontanea europea,
e si mantennero fino a 1,2-1.000.000 d’anni. Difatti, dopo i primi
600.000 anni, cominciarono a scomparire le specie più sensibili
all’umidità, indizi di quel deterioramento climatico tipico degli
inzi della successiva età geo-climatica detta Pleistocene. Nel
Pliocene quindi, l’Europa centro-orientale era coperta da foreste
miste, piante esotiche e fitti boschi. In Italia erano per lo più diffuse
foreste e boschi di Sciadopithys (conifera sempreverde),
Pinus, Abies, Tsuga (pinacea, oggi in Canada) e Cedrus (oggi in
Algeria e Marocco), insieme a Quercus, Carpinus (betulacea) e
Carya (oggi in America sett.). È stata così individuata anche la
presenza di Pterocarya (Juglandacea), Zelkova, Fraxinus, Tilia
(Tiliacee), Ulmus, Corylus (Betulacea-Corilea), Castanea, Acea e
Liquidamber (Amamelidacee) con una distribuzione in età paleolitica
di querce, tigli e carpini per ambienti termofili, di ontani,
salici, pioppi, betulle e platani per ambienti umidi, e di altre
conifere per climi più rigidi. Agl’inzi del Pleistocene inferiore
(1.800.000 anni) pertanto, scompare la conifera Sequoia suga. Rispetto al
Pliocene, in Italia c’è quindi un aumento di Pinus (naploxilon), di Picea (excelsa =
abete rosso) ed Abies (alba = abete bianco). Nel Pleistocene medio invece - nelle
fasi temperate che seguono lo stadio isotopico 22 quindi - dopo l’avvento del
“grande glaciale” di 800.000 anni, si diffondono in Europa i
boschi a conifere e latifoglie termofile: negli stadi isotopici 21-11
avviene così la scomparsa e rarefazione delle forme terziarie
superstiti, quali Tsuga, Carya, Pterocarya, Cedrus e Zelkova.
Si è poi scoperto da tempo che alcuni depositi tufitici del Lazio
dell’interglaciale Mindel-Riss - più di 430.000 anni (stadio isotopico
8) - contengono resti di Taxus baccata (tasso), Buxus sempervirens
(bosso), Vitis, Hedera, Ruscus (lauracea) e Smilax (smilace),
essenze tipiche dell’antica flora “colchide”. In Italia centrale
(Giac. di Riano Flaminio) in particolare, da un clima fresco si
passa a condizioni climatiche più miti, indicate dalla comparsa
della cosìdetta “foresta colchica” cui segue un ritorno a condizioni
climatiche più fresche, indicato dall’aumento dei pollini di
Abies e Fagus e dalla riduzione di Pterocarya (oggi tra il Mar Nero
e il Mar Caspio). Il paesaggio si distingue perciò per la presenza
di zone boschive a caducifoglie e limitate radure. Si passa quindi
ad una fase fresca ed arida (Giac. di Torre in Pietra), e si manifesta
successivamente una presenza di chenopodiacee e composite
con Salix e Pinus, con un successivo incremento del contingente
arboreo delle ombrellifere con Quercus e Pterocarya. Si
evince in seguito, intorno ai 300.000 anni, la presenza di un folto
bosco a latifoglie con predominanza del carpino (Carpinus betulus)
e presenza di querce, aceri, olmi, tigli, faggi, con specie tipiche
quali Pterocarya fraxinifolia (noce esotico, oggi in Georgia) e
Zelkova crenata. Le rocce fossilifere di Riano Romano indicano
infatti la presenza di una foresta lussureggiante intorno ai
300.000 anni, ricca di faggi, abeti, querce, frassini, aceri, tigli, carpini,
nocciolo, corniolo, edera e vite con alberi di Pterocarya e
Zelkova (oggi tra il Mar Nero e il Mar Caspio). La lunga sequenza
pollinica fossile dell’antico lago di Castiglione (Gabii), ci indica
inoltre che intorno a 190.000 anni il faggio si era diffuso
abbondantemente nella pianura latina fino al mare, mentre oggi
lo ritroviamo solo in altura, sopra gli 800 m. s.l.m. Così, con la
fine del glaciale di Riss (120.000 anni) - stadi isotopici 7-6 - si
entra nel Pleistocene superiore ed intorno ad 80.000 anni fa,
avviene la riduzione dell’antico bosco a causa di oscillazioni climatiche
più fredde ed aride, che comporta l’estinzione di Pterocarya
e la diffusione del querceto misto con querce caducifoglie,
carpini, tigli, aceri, faggi, noccioli Zelkova (Giac. di Saccopastore).
La predominanza del faggio per il clima più rigido ed umido si
verifica intorno ai 75.000 anni, cui segue la sua progressiva sostituzione
con vegetazione di tipo steppico, intorno ai 70.000 anni,
tramite presenza di sporadiche betulle che, attualmente, in Italia
centrale, sono sopra i 1000-1.500 m. s.l.m. Con gl’inizi dell’ultimo
periodo geo-climatico detto Olocene (12-10.000 anni), il
nostro, le condizioni subartiche favorirono l’espansione di pino
silvestre e ginepro. Nelle successive fasi preboreale e boreale (10-
7.500 anni), si afferma così la dominanza di Pinus, prima su pianura
e poi su colline e, tra i querceti, c’è una forte presenza di
Tilia ed Acer con boschi ricchi di abete bianco (fase boreale). Nel
periodo Atlantico (7-4.500 anni), si verifica una risalita dei querceti
sino a quote elevate. Nel sub-boreale (4.5-2.800 anni), diversamente,
si assiste ad un incremento di Ulmus ed una presenza
di Ostrya (betulacea), cui seguono il predominio di Abies insieme
al Fagus e l’aumento di noce e Prunus: si sviluppa così una grande
espansione dei faggeti, da m. 800 s.l.m in su, e dei querceti
misti su pianura e colline fino a m. 800 s.l.m. (10). Pertanto la
flora del Lazio protostorico, era così costituita da boschi d’alberi
giganteschi, plurisecolari, che crescevano per vaste distese su
colli e pianure: abeti, faggi, betulle, ontani, querce di cerro, di
farnia, di leccio, di rovere e di sughero, nonchè pini, frassini e
platani; avvicinandosi alla costa, invece, si estendevano ampie,
le basse boscaglie di lauro, di lentischio, di olivastro, di olmo, di
mirti, ginepri, corbezzoli, cornioli e pruni. Prima dei dissodamenti
neolitici per lo studioso Lieutaghi, la rovere (Quercus
petrae) doveva popolare una gran parte delle terre di Gallia, e
formare quelle immense foreste leggendarie che erano già degradate
ai tempi dell’Impero romano. Il tratto fondamentale del
paesaggio indo-europeo, per l’insigne glottologo Devoto, è dato
infatti proprio dalla foresta. La selva di Castel Porziano - la silua
laurentina di Pico, Fauno e Latino - e quella del Circeo - la temutissima
silua di Circe - rappresentarono infatti una lontana parvenza, veri squarci
primordiali e “relitti” vegetali, di quelle siluae remote che erano già ritenute
 essere molto antiche appunto, al tempo di Roma arcaica. I boschi sacri della
tradizione storica sono quindi, in vari casi, celebrati nella letteratura proprio
come un ricordo “poetico” ed una memoria ancestrale di queste siluae
primitive: la grande selva del Palatino riferita alla venuta di
Ercole nel Lazio (Verg., Aen. VIII, 271), la gran selva di lauri dell’Aventino
(Varro L.L., V, 151), possono alludere ad altri due primevi
esempi di età quantomeno protostorica. Perfino poi gli
stessi confini immensi e sconosciuti della temutissima selva Ercinia,
fino al I sec. a.C., rimasero anch’essi ignoti ai Germani cui
Cesare chiese notizie: lo stesso Imperatore Giuliano, nel IV sec.
d.C., dopo averla visitata ne rimase profondamente colpito per
la solitudine, la cupezza ed il silenzio, fino al punto da convincerlo
che nulla di simile esisteva nell’antico Impero romano. Il
nome di quest’ultima foresta deriverebbe appunto da un antico
vocabolo PERQUNIA- (i.e. PERQUUS = la Quercia), presente,
come noto, anche nel nome del Dio baltico della folgore, Perkunas,
e conservatosi fino a quando, nel V sec. a.C. i celto-germani
lo modificarono in seguito alla perdita della labiale P, così rimanendo
in età storica nel celtico [P]Ercynia. Lo stesso etimo si
ritrova nel tedesco medievale Virgunna, a sua volta desumibile
dall’antico germanico Fergunia (11). Infine, la perdita quasi totale
del significato dell’antico etimo sacrale Silva, si avverte nella
spiegazione etimologica che ne fornirà appunto il vescovo di
Siviglia, Isidoro: “vero spissum nemus et breve. Silva dicta quasi
xylva, quod ibi ligna caedantur; nam Graeci ξυλον lignum
dicunt” (Etym., VI, 5). L’arcaicissima e sacratissima Silva è appunto
ridotta ad un semplice bosco ceduo, ove si taglia la legna,
come indicherebbe la parola greca.
Lucus et Nemus: origini, formazione e sviluppo del Bosco sacro
greco-latino
Te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda,
Te liquidi flevere lacus (Aen., VII, 759)
La devozione per il bosco sacro – il louko italico - è pienamente
documentata soprattutto in ambito romano-italico dove, come si
evince da un celebre passo: “In his (scilicet = lucis) silentia ipsa
adoramus” (Plin., N.H. XII, 2, 3). Alcune fonti (Cic., De Leg. II, 8,
19; Lucano, Phars. III, 399; Verg., Aen. VIII, 347) difatti, asseriscono
che le Divinità che giardini rustici e boschi sacri ospitano,
sono tra le più antiche che il contadino romano riconosca. Anche
quando i boschi sacri saranno dedicati a un Dio o a una Dèa –
“sive deo sive deae cuius tutela hic lucus locusve est” (act. Arv., ad
ann. 183) - il Nume del bosco non sarà mai confuso con queste
divinità sconosciute, senza nome, simili ma non identiche a
quelle dei boschi vicini (es. Silvano, Feronia, Dea Dia, Deferunda,
Comolenda, Coinquenda, Adolenda). Un’esaustiva disamina di
fonti archeologiche e letterarie ha difatti verificato da tempo che
“il culto dei boschi sacri sopravvive con una forza e purezza che
ci meravigliano”, sebbene “all’inizio del I sec. a.C., dei boschi
sacri di Roma rimangono solo miseri resti”, oppure un vago
ricordo sopravvissuto nel nome di qualche località (12). I Lucaria
infatti non sono le feste di una divinità particolare: sappiamo
solamente che erano una festività celebrata dai romani, tra il 19
ed il 21 luglio, in un grande lucus che si estendeva tra la via Salaria
ed il Tevere [“Lucaria, festa in luco colebant Romani qui permagnus
erat inter viam Salariam et Tiberim fuit ...” (Festo, p. 106 L1 =
245 L2)].
La stessa protezione dell’Asylum spettava ad un misterioso deus
Lucoris (Serv., ad Aen., II, 760), un dio del bosco, foggiato appunto
sull’etimo lucus, come Silvanus da Silva. L’etimologia di lucus
sembra così indicare appunto l’apertura di una “radura”, un
luogo dove “piove luce”, una “superficie disboscata” in un
bosco o in una foresta: un vocabolo, per il Devoto, derivato dalla
radice della luminosità passiva leuk-, quindi uno spazio che può
ricevere luce in mezzo alla gran selva, ossia un’eccezione nel
cuore della foresta (il laukas- lituano = campo). Tuttavia il valore
del latino lucus è precisamente quello di un “bosco sacro” (Plin.,
N.H. XVII, 47, 6) e non profano, visto che anche celti e germani
ne facevano uso: “lucos ac nemora consecrant”, scrisse Tacito
(Germ. IX). La frontiera fra i due significati, come da tempo
appurato dal Dumèzil, “può non essere così assoluta” poiché in
una fase arcaica è possibile che sia avvenuto appunto il passaggio
semantico-sacrale dal primo al secondo termine (louko
>lucus), tanto che all’epoca di Catone, il senso doveva probabilmente
essere stato meno restrittivo, così da ritenere un lucus
qualsiasi bosco che si aveva ragione di pensare fosse abitato da
divinità, quindi, in pratica, ogni bosco. Avvenne per i boschi pertanto
la medesima transizione simbolico-spirituale che ci è nota
per le sorgenti, per cui “nullus enim fons non sacer” (Servio, ad
Aen. VII, 84): ossia, non ci sono sorgenti che non siano sacre. Successivamente
il lucus diviene un bosco sicuramente diverso dagli
altri, poichè ne è stato individuato e sancito il carattere sacro
appunto, in quanto dimora di una o più divinità che vi manifestano
i loro segni e prodigi, cosa che non avviene invece per altri
boschi: dev’esser quindi un luogo non coltivato (senza necessariamente
versare in uno stato selvaggio o di completo abbandono),
non dev’esser un luogo soggetto a molteplici vincoli e,
soprattutto, non è necessariamente grande; la parte riconosciuta
sacra, poteva infatti essere anche ridotta e già pochi alberi, come
fatto notare, erano sufficienti a dar luogo ad un lucus (13). Una
particolare categoria di alcuni di questi boschi sacri nel territorio
del Latium vetus, come noto, furono inoltre sede di veri e propri
“santuari federali” con funzioni sacrali e politiche, che riguardarono
più città e popoli. Si può pertanto convergere sull’ipotesi
che il lucus, per alcuni studiosi, in origine da ritenersi una semplice
“radura tra gli alberi”, è stato poi anche un luogo funzionale
ai raduni, fenomeno tutt’altro che isolato nel Lazio antico, il
cui aspetto, non solo importante ma fondamentale, era appunto
la consecratio ad una divinità (14). I luci furono così quella parte
delle selve destinate al culto e dove ci si radunava per eseguire
riti religiosi: devono considerarsi quindi come primi templi a
tutti gli effetti, tanto che gli antichi Romani vollero che, successivamente,
a ciascun tempio fosse unito un lucus, a perenne
memoria della primitiva sede delle religiose adunanze nei
boschi sacri (15). Non c’è miglior spiegazione letteraria quindi,
sul senso di “presenza divina”, di quella relativa alla descrizione
dell’Aventino nei tempi in cui era appunto ancor una collina
selvaggia, coperta da neri lecci ed allori: «lucus Aventinus suberat
niger ilicis umbra / quo posses viso dicere “Numen inest”» (Ov., F. III,
295-296). Proprio a partire dal I sec. a.C. sembra che il lucus
venisse di preferenza indicato come nemus. Termine, quest'ultimo, che, sebbene
continui a designare un bosco sacro, si arricchisce
di un’ulteriore sfumatura semantica che può desumersi,
come fatto già notare, da un interessante verso: “est nemus Haemoniae,
praerupta quod undique claudit/ silva. Vocant Tempe”. (Ov.,
Met. I, 567). Un boschetto sacro quindi che si distingue per la sua
“bellezza” dalla “silva”, la foresta incolta che lo circonda, ci dice
lo studioso Grimal. Il lessema quindi, greco νεμος, latino nemus,
assurge a rappresentare pur sempre un luogo di culto ma, diversamente
dall’originario lucus, diviene il bosco sacro “umanizzato”
della tradizione letteraria greco-ellenistica in cui, in età imperiale,
l’elemento “sacro” sembra quasi “cedere” rispetto all’elemento
“estetico” (16). Il Nemus è stato anche ritenuto essere un
“pascolo” inframezzato da radure, insieme a boschi compresi
nella foresta in cui gli uomini si insediavano e prendevano contatto
con gli spiriti presenti (Columella, XI, 2, 52; Palladio, 8, I):
nemora quindi non solamente come “isole” in mezzo a terre fortemente
abitate e coltivate ma anche come occupazioni di larghe
distese di territorio. La radice nem- allude infatti all’idea del
tagliare, distribuire, dividere: il verbo greco νεμω significa infatti
anche isolare, metter in disparte, occupare ed abitare oppure
pascolare e coltivare. La tradizione latino-italica avita manifesta,
distinguendosi da quella greco-ellenistica, come noto, quel fascinans
et tremendum quale venerazione trepida, terrifica e profonda
verso alberi e boschi che rispecchia invece da sempre una
scarsa preoccupazione per un’eventuale bellezza ed umanizzazione
di quelle dimore degli Dèi cui i greci, diversamente, seppur
in un determinato periodo, diedero forse l’apporto più originale
e fecondo tra i diversi popoli del Mediterraneo che venerarono
appunto le profonde forze spirituali della vegetazione
(17). Le descrizioni delle specie vegetali presenti nei boschi sacri
in Grecia sono infatti eterogenee: sebbene le diverse fonti letterarie
greche indichino specie selvatiche e coltivate, alberi fruttiferi
e odoriferi, la nozione di αλσος, seppur talvolta vicina all’idea
del giardino fiorito, quasi un frutteto, è spesso associata ad
una vegetazione selvatica, priva di frutti, come si desume da
molteplici menzioni (Paus., I-II-III-VII-VIII-IX-X; Argon. Orf.,
911-913) relative ai diversi boschi sacri di Demetra e Dionisio
(Plin., N.H. XII, 6), di Apollo a Colofone (Paus. VII, 5, 10), dei
cipressi di Ebe a Fliunte (II, 13, 3), del bosco sacro alle Eumenidi
sulle rive dell’Asopo (II, 11, 4), nonchè i platani della tomba di
Diomede alle Tremiti e quelli di Delfi (Plin., N.H. XVI, 238). Il
giardino di Calipso (Od. V, 57), quello dei Feaci (Od. VII, 112) il
frutteto mistico di Alcinoo e di Laerte (Od. XXIV, 220; poi in
Verg., Buc. I, 2, IV, 3, VI, 2, VII, 65; Geor. IV, 329), quello di Athena
(Od. VI, 291) e di Itaca (Od. XVII, 205), sono quasi delle vere e
proprie siluae, per alcuni studiosi dei veri “boschi sacri ameni”,
sicuramente anche il risultato di elevate creazioni letterarie ed
artistiche, da annoverare quindi tra le prime espressioni elleniche
della bellezza di una natura libera, ma luoghi carichi
anch’essi di ierofania squisitamente elladica (18), tutt’altro che
gradita a certa cristiana patrologia greca. Tuttavia, ben diversamente
dal mondo latino, l’idea di “bosco sacro” che si può desumere
dalla letteratura greca, è più orientata verso una specifica
forma di santuario urbano o extra-urbano, con recinti sacri e
regolamenti cultuali ben precisi (es. la sospensione di offerte ai
rami degli alberi), luoghi sicuramente profumati, ombrosi, rinfrescanti
e terapeutici, ma che richiamano e suggeriscono più l’idea
di una cornice “paesaggistica” e letteraria, che non quella di
una presenza divina, numinosa e totalizzante appunto, più l’idea
di un “decoro” vegetale che non quella di un luogo sacralizzato
dalla sua stessa intima essenza, ossia da quel “sentimento
dell’ignoto”, da quel quid “numinoso” che è possibile desumere
anche dalle variegate rappresentazioni rimasteci dei boschi latino-
italici. Gli scavi nell’Agorà di Atene hanno infatti da tempo
rilevato la presenza di un bosco sacro di olivi, allori e platani
(Plut., Cim. 13, 7, 487c) che delimitava l’area del Tempio di Ares,
così come pioppi bianchi e neri erano presenti vicino l’Odeion di
Agrippa; gli scavi nello stesso giardino di Efesto intorno all’Eleusìnion,
hanno a loro volta individuato due file di appezzamenti
rettangolari tagliati e scavati nella roccia poi riempiti di
terra, ove erano ubicate le radici di numerose viti rampicanti e
melograni, distribuiti come le colonne di un tempio, costituenti
un recinto sacro sul declivio di un colle. Questo giardino sacro,
creato con buona probabilità nel V sec. a.C., rimase in vita almeno
fino ad età augustea (19). I frammenti letterari tardo-ellenistici
poi, detti kηπυpιkα, una sorta di filiazione delle Γεωpγιkα non
riguardavano solo l’arte dei giardini ornamentali e di svago,
bensì i giardini produttivi, ossia per lo più orti e frutteti, presi
come esempi a proposito della coltivazione di verdure o nella
semina di meloni, quali appunto i Cepurica di Cesennio e quelli
di Sabino Tirone (Plin., N.H. XIX, 177, 113). Per cui, come dimostrato,
“l’image moderne du bois sacré c’est constituée à partir et
autour des sources latines [...] c’est dans le seul domaine latin
que l’on présent parfois une doctrine plus précise, inspirée par
des définitions qui remontent aux grammairiens romains” (20). I
boschi sacri italici, all’opposto dei boschi sacri alessandrini,
erano appunto “selve terribili”, frequentate ed ancor abitate da
Numina, genii e spiriti di boschi, alberi e acque (fonti, sorgenti,
fiumi), ossia Sìlfidi, Driadi, Amadriadi e Nàiadi: l’elaborazione
ellenistica aveva difatti quasi “razionalizzato” e quindi impoverito,
quegli elementi religiosi e culturali di eredità indo-europea
e mediterranea che, diversamente, i romano-latini ripresero e
riscoprirono assieme a quei temi dionisiaci che custodivano
quell’immagine tragica della natura e vicina appunto al naturalismo
delle “origini”. Non si può pertanto non convenire col Grimal
in merito al fatto che “il giardino romano è profondamente
pagano persino nelle sue forme mistiche. Ed è questo ciò che lo
rende grande”; così come è difficile dissentire da Capdeville
quando asserisce che “le bois ou le jardin sacré représente la
réduction, dans un monde plus civilisé, plus urbanisé, de la foret
où les populations plus ancienness pratiquaient leurs initiations”
(21). Sopravvive quindi nel bosco sacro latino-italico e nel
più piccolo giardino cultuale di età ellenistico-romana, la memoria
attiva del più remoto istituto iniziatico della silua primordiale
appunto, forse di ascendenza paleolitica. La stessa toponomastica
archeologica si è di recente rivelata fondamentale nel risalire
ad antiche stratificazioni semantiche che appunto celano la
più che probabile memoria di un lucus in diversi nomi di località
tuttora esistenti: da ricordare Monteluco (Spoleto) e Piediluco
(Rieti), Luco dei Marsi (Avezzano) in vece di Lucus e/o Nemus
Angitiae (Verg., Aen. VII, 759) presso il Fucino, Lugo di Romagna,
Luc-en-Diois in vece di Lucus Augusti Vocontiorum (Gallia Narbonese),
s. Maria de Lugo in vece di Lucus Asturum (Asturia settentrionale),
Lugo in vece di Lucus Augusti (Galizia), come non
mancano nell’ager umbro-spoletino altre significative menzioni
epigrafiche quali il lucus Bonae Deae (C.I.L, XI 4769 = ILS 3492)
vicino ad Acquaiura, il lucus del Clitunno (Propert. II, 25-26), i
luci Giovio e Coretio delle Tabule Iguvine (I b, 1-4; 5-7; VI b, 43,
45), uno o più boschi sacri, Augusto/lucus/ sacer (C.I.L, XI 1922,
1941) , presso Perugia (22).
Nuove indagini archeologiche ed archeobotaniche hanno poi da
poco riproposto una nuova ubicazione del celebre Annae pomiferum
nemus Perennae (Marziale, Epigr. IV, 64, 17), ossia di quella
misteriosa divinità romana delle origini, festeggiata alle idi di
Marzo, proprio in un bosco sacro (Ov., F. III, 523), finora creduto
essere in via Flaminia ad lapidem primum (C.I.L XII, 311, 342). La
presenza di un’ara con dedica Nymphis sacratis Annae Perennae
(tre epigrafi) e la combinazione infatti di oltre 170 reperti lignei
ed almeno 40 reperti carpologici (frutti e semi) provenienti dallo
scavo del lacus, ossia di una fonte sacra della Dea in prossimità
dell’attuale P.zza Euclide, ha permesso la ricostruzione del paesaggio
antico di questo singolare bosco sacro alle porte di Roma
antica. La particolare fisionomia di questo nemus - già ritenuta
più affine a quella dei frutteti sacri orientali che non a quella dei
boschi sacri italici, distinti questi ultimi appunto da alberi non
fruttiferi – si evidenzia infatti per la riscontrata presenza di abete
bianco (Abies alba), castagno (Castanea sativa), frassino (Fraxinus),
viburno (Viburnum), quercia/rovere (Quercus robur) cerro (Quercus
cerris), leccio (Quercus ilex) e faggio (Fagus sylvatica), in legno
lavorato e non, nonchè di acero (Acer), tiglio (Tilia), fico (Ficus
carica), noce (Juglans regia), ligustro (Ligustrum vulgare), salice
(Salix), sambuco (Sambucus nigra) ed edera (Hedera helix), in
legno non lavorato, ed una percentuale ridotta invece di uva
(Vitis vinifera), pesca, mandorle (Prunus persica e dulcis), nocciole
(Corylus avellana), noce e pino domestico (Pinus pinea) - frutti e
semi - mentre le analisi microanatomiche hanno permesso di
escludere la presenza di pesco e mandorlo, ossia di quel pomiferum
nemus, dall’area di culto direttamente interessata dalla fonte
sacra (23). Di straordinario rilievo cultuale poi furono sicuramente
il bosco sacro di Albunea – “delectabile nemus est, consecratum
Albuneae nymphae, a qua et nomen accepit” (Ps. Acro, ad Hor. I,
7, 12) - depositario di un celebre oracolo di Fauno – “oracula
Fauni/ fatidici genitoris adit lucosque sub alta/ consulit Albunea,
nemorumque maxima sacro” (Verg., Aen. VII, 82-85) - ed il lucus di
Tiburno, entrambi situati, per alcuni studiosi, in prossimità dell’antica
Tibur, “domus Albunae resonantis/ et praeceps Anio ac Tiburnis
lucus” (Hor., Carm. I, 7–12-14); tutt’altro che secondaria tuttavia,
anche l’ipotesi di una più che probabile localizzazione laurentina
della selva con l’oracolo, “Faunus [...] rex Aboriginum [...]
etiam oraculum ejus in Albunea, Laurentinorum silva, est” (Prob. ad
Verg., Georg., I, 10). Notevole importanza ebbero lo stesso Furrinae
lucus sul Gianicolo - con i riti agro-botanici del Serapeum osiriaco
- come bosco sacro di confine, analogo appunto al Camenae
lucus e la stessa Silua Egeria (quest’ultima driade-ninfa della
Quercia) presso Porta Capena. Perfino l’importante tempio di
Marte che sorgeva sulla via Appia (C.I.L VI, 10234), ebbe accanto
molto probabilmente un bosco sacro: “lucum Martis dicit, qui
Romae est in Appia” (Iuv. I, 7-8). Ma il consistente elenco di boschi
sacri dell’antica Urbis Romae che si evince dalla critica rassegna
storiografica elaborata a suo tempo dallo studioso Stara–Tedde,
tuttora d’impescindibile e fondamentale ausilio, ci rende edotti
sulle fonti letterarie che ci ragguagliano sui principali boschi
sacri romani: ossia Varrone (L.L., V, 49, 59), Festo (348), e Jul.
Obseq. (XII) sull’Esquilino (luci Facutalis, Larum Querquetulanum,
Esquilinus, Poetelius, Mephitis, Junonis Lucinae, Libitinae), Livio (I,
30; V, 32, 50-52), Cicero (De Div., I, 45), Tacito (Ann. III, 79) e Plutarco
(Romul. 20; Camill, 19; De Fort. Rom. 5) sul Foro e sul Capitolium
(luci Vestae, Strenuae, Asyli), Cicero (ad Atticum, IV, 3) sul
Campo Marzio (luci Bellonae, Feroniae in Campo), cui sono da
aggiungere i Loreta dell’Aventino (Serv. ad Aen., VIII, 276), i luci
di Furrinae (Varro., L.L., VI, 19; Cic., Nat. deor., II. 16; Appian., Bel.
civ., I, 26; Plut., Quaest. rom. 51) e di Albionarum (Fest., l.l., IV) nel
Trastevere. Il nutrito elenco prosegue poi con i boschi sacri extramuranei:
da ricordare quindi i luci Deae Diae (CIL, VI, 2107;
2075/2078), Camenarum (Giov., Sat. III, 10), Egeriae (Giov., cit),
Petelinus (Liv. VI, 20; Plut., Camill., 36), Robiginis (Fast. IV, 905;
Plin. N.H, XVIII, 285; Varro, R.R, I, 1, 6), Semeles/Stimulae (Ovid.,
F., VI, 503; Liv., XXXIX, 12), Annae Perennae (Ovid., F., III, 523;
Mart. IV, 64, 16), nonchè la menzione di quelli del tutto ignoti e
d’incerta ubicazione quali i luci Helerni (Ovid., F., IV, 105; II, 67),
Pisonis (Cic., ad Quinct. II, 3), e della Deae Satrianae (CIL VI, 114).
Di almeno 24 di questi boschi, lo Stara-Tedde ne propone una
ubicazione “esatta” o per lo meno “approssimativa”, ricordandoci
inoltre che proprio per i tempi più antichi, accanto ad ogni
sacello bisogna immaginare un boschetto - da non confondere
con i semplici giardini che pur non mancavano nell’antica città –
così istituendo quella relazione luogo di culto-bosco sacro d’inaudita
importanza per comprendere bene nelle sue squisite
radici dendrofaniche il mos maiorum romano-italico.
Di recente inoltre, sembrano aver avuto un certo incremento tra
gli epigrafisti le interpretazioni di alcuni testi come vere e proprie
leges lucorum, analogamente alla legislazione sacra delle due
celebri epigrafi di Spoleto. Questi documenti reinterpretati,
diversi anche per datazione, sono la lex sacra del Cippo del Foro
(Palmer), di fine VI sec. (Quoi hon[ce louquom violasit]/ [...]), la lex
luci Lucerina (Panciera) del 300-250 a.C. (il cui incipit, In hoce loucarid
[...], ci suggerisce Loucar/lucar per lucus), la lex della Tabula
Veliterna (Rix) del 300 a.C. (relativa ad un bosco sacro, non menzionato
tuttavia, della Dea Declona/Diana ?), la lex Furfensis del
58 a.C. e la lex osca della Tabula Bantina. Sono tutti testi, come
fatto notare, che si illuminano a vicenda proprio sulla natura di
atti che, se ritenuti leciti in un nemus o in una silva (es. portare via
frasche, rami secchi, tronchi caduti), non lo sono affatto in un
lucus (da cui nulla poteva essere portato via), costituendo infatti
violazione, profanazione ed espiazione con sacrifici che siano
preventivi, pacificatori (piacula) o a posteriori. Un confronto tra i
più eloquenti è del resto quello relativo ad uno dei testi degli Atti
degli Arvali (a. 14 d.C.) inerenti il celebre lucus Deae Diae, santuario
di confine, sulla via Campana: “...[cum arbo]r vetustate in
luco deae Diae cecidisse, ut / [in luc]o ad sacrificium consumeretur,
neve quid / [ligni] exportaretur”. Anche questo lucus già esistente
in età repubblicana (Varro, L.L., V, 22), potrebbe risalire perfino
ad età romulea (Plin., N.H., XVIII, 6; Gell., VII, 7, 8), sebbene il
culto della Dea Dia sia attestato dall’età augustea (24). Di fatto,
per lucus, è dunque possibile intendere uno spazio costituito sia
da un vero e proprio bosco sia da pochi alberi intorno ad un tempio:
cintato e dotato d’ingresso, presso quest’ultimo o lungo la
sua delimitazione, si potevano trovare cippi epigrafici plurimi
con il medesimo testo della lex Spoletina che allude appunto alla
inviolabilità del bosco sacro – “Honce loucom nequis violatod (I-II)”
– ed al divieto rigoroso di asportazione di alcunchè che appartiene
al bosco stesso – “quod louci siet (IV-V)” – ad eccezione del
giorno in cui sarà fatto il sacrificio annuo – “nesei quo die res
de(v)ina anua fiet (VI-VII)”. Altre epigrafi inoltre ci informano
anche sull’esistenza di sacerdozi specifici connessi ai boschi sacri
quali il Flamen lucularis (C.I.L, XI 5215 = I.L.S 2650), nonché il
Sacerdos trium lucorum (C.I.L, XI 1941 = I.L.S 6615): sono probabilmente
questi sacerdoti che, secondo Plinio (N.H., XVI, 249),
“[...] roborum eligunt lucos nec ulla sacra sine ea fronde conficiunt”.
Empietà e sacrilegi contro alberi e boschi sacri
L’ostilità e la denigrazione dell’apologetica giudaico-cristiana
verso quei “paesaggi boscosi d’alberi non fruttiferi, ritenuti sterili
e non produttivi” (Themistio, 237c, 10; Origène, In Jeremiam,
IV, 4, 42), nonché l’esplicito invito rivolto non solo alla distruzione
dei Templi dei Gentili, ma alla stessa non meno aberrante
mutilazione dei boschi sacri (s. Cesario di Arles, Sermones LIII) –
è di quest’ultimo “sant’uomo” “l’Ammonitio ut fana destruantur”
ossia “arbores fanaticos incendere e aras diabolicas dissipare [...]”- ci
fanno capire che non si tratta di un “tema” di pura invenzione
poetico-letteraria, nè di una mera tradizione mitica ma, appunto,
di esplicite direttive che, come ben arguito, “témoignat par la
meme de la diffusion importante de ce cadre cultuel” (25). Il lucus
Dea Diae infatti durò fino al 382 d.C., anno in cui gli empi e
superstiziosi paleocristiani, in forza della costituzione di Graziano
che interdiceva ogni nostro culto, poterono abbatterne tutti
gli alberi. Il Concilio di Arles infatti, come noto, nel 452 d.C. legiferò
contro l’adorazione di alberi, pietre e sorgenti ed i Concilii
di Tours nel 567 d.C. e di Nantes nel 568 d.C., contro coloro che
praticavano culti sacrificali in luoghi nascosti in fondo ai boschi
e contro gli alberi consacrati ai “demoni”. Così anche i Capitolari
di CarloMagno del 789 d.C. perseverano nel denunciare coloro
che praticano “superstizioni” (quali accensioni di candele)
vicino ad alberi, pietre e fonti. In Irlanda, tre dei cinque alberi
sacri a questo popolo, erano appunto frassini che furono abbatuti nel 665 d.C. dai
cristiani. Sotto il regno di Costante II, nel VII sec. d.C., viene poi fatto sradicare dal
 nefasto vescovo Barbato, il celebre noce di Benevento (Vita Barbati, 1-7). Non
sorprende pertanto di trovare una recente e doviziosa sistematizzazione di tre
tipi di atteggiamenti dei monolatri paleocristiani, desunti da
fonti letterarie patrologiche ed agiografiche, riconducibili in tre
sezioni – che non siano da intendersi però come fasi cronologiche
distinte e successive - della ampia e variegata casistica di
aneddoti relativi all’ateismo con cui la “furia” galilea si manifestò
nei confronti del nostro patrimonio più sacro, ineffabile, corruscante
e numinoso. È appunto l’insigne storico medioevista
Cardini, ispirandosi all’ancor più celebre studioso Le Goff - in
merito alla pluralità di tattiche acculturative adottate dalla Chiesa
latina - che così ci ragguaglia: A) santi che distruggono alberi
isolati (di solito mediante abbattimento), tra cui Martino di
Tours, Barbato e Bonifacio, cui sono da aggiungere Amando episcopo,
Amatore vescovo di Auxerre, Anselmo e Giovanni I,
vescovi; B) santi che distruggono boschi (di solito bruciandoli),
tra cui Giulio, Giuliano e Maurilio, vescovo di Angers; C) santi
che nei boschi, sacri per i pagani, si insediano, tra cui Alveo di
Sens, Amanzio eremita e Ilario. Si tratta quindi per lo più di “due
grandi cicli” inerenti la distruzione-obliterazione e la sostituzione-
prosecuzione con “pronunziato carattere acculturativo”. Lo
stesso papa Gregorio (Dialog., III) così si esprimeva a proposito
del “montis quod Casinus dicitur ([...]) ubi vetustissimum fanum fuit,
in quo ex antiquorum more gentilium ab stulto rusticorum populo
Apollo colebatur ([...]) in cultu daemonum luci succreverat ([...]) infidelium
insana moltitudo sacrificiis sacrilegis insudabat ([...]) vir Dei
(= il Benedictus di Norcia, n.d.A) contrivit idolum, subvertit aram,
succidit lucos [...]”, rendendoci più eloquente e meno edulcorato
l’approccio “genuino” che questi fautori del deserto di Galilea,
seppero applicare a silvae, nemora e luci greco-italici (26). “Tutti
questi apostoli della fede”, scrive lo studioso Lieutaghi, “si diedero
da fare a dimostrare ai loro catecumeni e nuovi battezzati,
che le divinità degli alberi non erano altro che demoni [...], si
piantavano delle croci sulle Querce; santi e madonne sostituivano,
nelle cavità dei tronchi, le divinità silvane buone e cattive”.
È del resto il profeta Isaia (Is., LVII, 5) che strepita contro i riti
pagani degli alberi: “voi che vi eccitate [...] sotto un albero verdeggiante”,
è il profeta Osea (Os., IV, 12-13) che s’indigna verso
coloro che “fanno sacrifici in cima alle montagne, bruciano offerte
sulle colline, sotto le Querce, i Pioppi, i Terebinti”, ed è il profeta
Ezechiele che si scaglia contro il culto sumero-accadico di
Tammuz (Ez., 16), dio morente della vegetazione - equivalente
all’ellenistico Adone - cui erano strettamente legati i boschi sacri,
connesso appunto ai giardini funebri di primavera. È il “messaggio
yahwista”, acutamente indagato e “ben” compreso dal
Cardini – il profeta Elia massacra 450 profeti di Baal del Carmelo
(I Reg., 18-19), dediti al culto presso alture, ossia montagne
coronate di boschi sacri - che viene pertanto doviziosamente
recepito ed attuato dai paleocristiani. Ma il simbolismo miticorituale
che alberi e boschi sacri ebbero in particolare nell’antichità
greco-romana e celto-germanica, fu talmente preponderante
da non poter esser certo dimenticato e cancellato nell’età
medioevale: la polarità vita-morte, benefico-malefico, fasto-nefasto
rispetto al singolo albero ed al suo legno, ritorna e sembra
perfino accentuarsi, connotandosi di nuove sfumature semantiche
tra le diverse culture medioevali, ponendo tuttavia, sotto il
dominio “diabolico” e “maligno-infernale”, tutto ciò che era
appunto in odore di negatività, ossia di paganità (27). Nonostante
ciò, l’antico vocabolario latino del bosco sopravvive, ripetuto
da testo a testo, ma termini quali silva, nemus, lucus sono
oramai privati di quell’arcaica valenza cultuale e sacrale che ne
permeava il genuino senso semantico. L’etimologista Isidoro
infatti, riferendosi al lessema aviaria (bosco popolato da uccelli)
ripete appunto Virgilio, “Aviaria secreta nemora dicta quod ibi aves
frequentant” (Etym., XVII, 6, 9), e non dimentica tuttavia che
“Nemus a numinibus nuncupatum, quia pagani ibi idola constituebant”
(Etym., VI, 6). Così Rabano Mauro usa come sinonimi “saltus
vel silva”, come Bartolomeo Anglico dice “et est idem silva,
nemus et lucus”. L’uso indiscriminato e indifferenziato della terminologia
classica depone quindi inevitabilmente a favore di
uno svuotamento di significato simbolico-rituale; i boschi
insomma rimangono esclusivamente nella categoria dell’utile,
legna da ardere o da lavorare per fini profani: non dimenticando
ovviamente l’ambientazione silvestre di parte dei principali cicli
epici medievali e del ruolo tutt’altro che secondario che la silva
ed il bosco ebbero nella nascente letteratura italiana (28).
Gli Alberi sacri e di culto: dendrofanie e cratofanie vegetali
Seppur discussa e criticata, una presunta “dendrolatria”, dedotta
anche dalla presenza di particolari alberi in determinati santuari,
non può certo - come fatto notare (29) - far escludere l’esistenza
di uno specifico culto e di una profonda devozione rituale
anche verso il singolo albero, fin da epoca molto arcaica: un
esempio per tutti, ovviamente, la farnia (Quercus robur), la famosa
quercia sacra oracolare di Zeus a Dodona (Paus., Perieg., X, 12,
10; Plat., Fedro, 244a) in Epiro. Quest’ultima è la medesima chiamata
aesculus/esculus (eschio), sacra a Giove ed a Marte, di Plinio
e Virgilio: trattasi dell’attuale Quercus Farnetto (varietà virgiliana
Tenore), tipica dell’Italia meridionale e dei Balcani. Enorme
infatti il rilievo dato alla quercia dai vari popoli indo-europei, tra
cui proprio gli Achei che la sostuirono simbolicamente al più
antico faggio. La quercia oracolare di Dodona, per Erodoto (II,
54-57) era coeva alla quercia oracolare egizia di Ammone custodita
dai Garamanti. Quell’unico albero infatti, in molti casi era
ciò che rimaneva di una selva ben più antica, il cui culto persisteva
e si perpetuava proprio attraverso l’ultimo ed unico esemplare
superstite (30). Il tema dell’albero sacro infatti, prima ancor
dell’ospitalità ricevuta nella letteratura di età ellenistica, è
ampiamente diffuso nelle religioni mediterranee preclassiche ed
in particolare nella civiltà minoica-micenea. Nell’Egeo preellenico
infatti era anche Rea, Dea della quercia, al centro del culto che
si rendeva agli alberi nella Creta minoica, allora coperta di foreste:
una cerimonia con sacrifici umani, rappresentata su anelli di
Micene e Vaphio, prevedeva infatti lo sradicamento di un albero
sacro cui era avvinta una donna, mentre un’altra donna china,
piangeva la morte annua della vegetazione (31). Il culto della
quercia-Zeus è stato poi un fenomeno antichissimo nei santuari
del Mediterraneo con evidenti analogie presso Lituani, Slavi,
Celti ed Italici. Presso questi ultimi infatti, la quercia divinizzata,
Grabo, secondo la studiosa Martini, ha la capacità d’individuare
e determinare lo stesso Giove, noto appunto, nelle tavole
eugubine, nella forma di Grabovio; un attributo giovio anche di
tipo “arboreo” quindi, che dovrebbe desumersi sia da Virgilio
(Georg., III, 331-333): “[...] sicubi magna Iovis antiquo robore quercus
/ ingentis tendat ramos”, che da Quintiliano (Inst., X, 1, 88): “sicut
sacros vetustate lucos adoremus, in quibus grandia et antiqua robora
iam non tantam habent speciem quantam religionem”. Gli stessi
Corinzi, per ordine dell’Oracolo delfico, veneravano un albero di
pino nel cui legno scolpirono un’immagine di Dioniso (Paus., II,
2, 7), cui fu sacro anche quest’albero. A Boiai in Laconia, un mirto
era adorato col nome di Apτεμις Σωτειpα: difatti quest’ultima
divinità presso i Greci è spesso presente in un albero. Proprio ad
Orcomene in Arcadia, c’era uno ξοανον di Apτεμις Kεδpεατις
(Paus. III, 22, 12) in un albero di cedro (Pinus cedrus), e l’albero
del Citerone, su cui si credeva che Penteo arrampicato avesse
spiato le Menadi, fu quello che l’oracolo ordinò di venerare
(Paus. II, 2, 7). Sotto un platano poi, Ulisse e i suoi, ricevono il
presagio della futura vittoria sui troiani, in virtù dell’interpretazione
datane da Calcante (Om., Il., II, 307); sempre un platano è
l’albero di Elena, venerato a Sparta (Paus., II, 2, 7): quest’albero
(Platanus orientalis), risulta essere peraltro una specie europea già
presente in Francia alla fine del Terziario. L’olmo invece era l’albero
consacrato a Morfeo dagli antichi, l’Ulmus somniorum, così
chiamato da Virgilio (Aen. VI, 282-284) nel descriverne l’esemplare
dell’Averno; più interessante ancora il prodigio attribuito a
quest’albero nel bosco sacro a Giunone nei pressi di Nocera (Plinio,
N.H., XVI, 132), durante la guerra coi Cimbri. La sommità
recisa dell’Olmo infatti, per l’incombenza sull’altare, e la sua
imminente rifioritura nel 105 a.C., secondo Giulio Ossequente,
furono un vaticinio ed un potentissimo omen, dopo gravi sconfitte,
per l’imminente vittoria dei Quiriti ai Campi Raudii nel 101
a.C. Anche il salice - latino salix, greco ελιkη - fù un albero sacro
a diverse divinità: la Dea Era nacque tra i salici dell’Hεpαιον di
Samo, a Sparta si venerava anche Apτεμις Λυγοςδεσμα (= avvolta
di vermena), ossia adorna di λυγος, cioè di una varietà di Salice
di cui era fatto il cespuglio in cui fu ritrovata (Paus. III, 16-17);
così lo stesso Orfeo riceve il dono dell’eloquenza toccando i salici
di un boschetto sacro alla Dea Persefone e la culla dell’infante
Zeus sull’Ida, sembra fosse appesa proprio ai rami di un Salice.
Anche a Roma, sotto il divino epiteto di Viminalis, vanno ricondotte
solamente le varietà del Salice dette riparia (= ripaiolo), alba
(= bianco), triandra (= da ceste) e purpurea (= rosso): specie usate
per ogni sorta di legacci inerenti capanne e altri oggetti della vita
domestica. Nell’antichità quindi sono proprio gli alberi indicati
da un segno sovrannaturale ad esser oggetto di culto: la stessa
identificazione di alcuni di questi alberi con le ninfe (Dafnelauro,
Aria/Tia/Deione, Driope-Quercia, Leuke-pioppo bianco, Filira-
tiglio, Pitis-Pino nero, Caria-noce, Fillide-mandorlo, Lotis-loto),
i rapporti di questi con un Dio e le condizioni delle varie metamorfosi,
permettono di evincerne le specifiche caratteristiche.
Nel Latium vetus ed a Roma in particolare, pur considerando le
rispettive topografie e contesti, questi alberi isolati e venerati,
sacrati o “amati”, sono menzionati di frequente, anche se non da
tutte le fonti letterarie è desumbile con certezza un’usanza cultuale
rigorosa e continuativa nei tempi (32). Sul Campidoglio il
primo tempio di Giove era stato edificato da Romolo presso una
quercia da gran tempo venerata dai pastori. Sul Celio, detto
appunto il monte del bosco di querce (Varro, L.L., 49), vi si adorava
Giove in quanto dio della quercia. Passieno Crispo era poi
noto per la passione che nutriva per un faggio - per alcuni studiosi
l’elce gigantesca del Tuscolo - cui offriva libagioni di vino
(Plin., N.H. XVI, 44, 242; Virg., Egloga I), così come l’oratore
Ortensio “irrigava” con vino un platano della sua villa di Tuscolo
(Macrob., Sat. III, 13, 3): proprio quest’ultimo albero sembra
sia stato introdotto in Italia a Reggio (Plin. N.H., XII, 6) da Dionisio
il Vecchio (430-360 a.C). Una pianta di loto eccezionale fù
quella menzionata nel lucus Lucinae a Roma; un bagolaro (Celtis
australis) - ossia un’ulmacea, l’arber lotus di Dioscoride - era invece
presente e venerato davanti al tempio di Vulcano (Plin., N.H.
XVI, 236). Famoso e ben più antico era invece l’arbor capillata o
capillaris arbor - l’albero di loto appunto cui le Vestali appendevano
la chioma recisa - così detto “quoniam Vestalium virginum
capillus ad eam defertur” (Plin., N.H. XVI, 235), nonchè “capillarem
arborem dicebant, in qua capillum tonsum suspendebant” (Paul.-
Fest., 50, 12 L). La lista prosegue con il celebre ilex, l’elce/leccio
del Vaticano, con iscrizione etrusca in bronzo, la cui nascita era
creduta antecedente a quella di Roma (Plin., N.H. XVI, 87, 237)
284 - SILVÆ - Anno VI n. 13
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
ed il caprifico di Juno Caprotina (Varro L.L., VI, 18; Fest., L, p.
50). Di quest’ultimo (Ficus carica caprificus), nelle cerimonie sacre
delle Nonae Caprotinae, a luglio, era infatti usato il lattice – “lac
quod ex caprifico manat” – e le verghe lignee dello stesso albero,
impiegate per i rituali fecondatori reciproci sub arbore caprificio,
celebrati da matrone e schiave (Macrob., Sat. I, 11, 36-40; Plut.,
Rom. XXIX, 6). Nell’elenco topografico quindi un significato particolare
assume ovviamente la Ficus sacra: da ricordare quindi il
fico nato in mezzo al Foro nel 362 a.C. nello stesso punto dove
morì Marco Curtio (Liv., St. Rom., VII, 6, 5), il nuovo fico Ruminale
che fu poi trasposto al Comizio sotto gli auspici di Atto
Navio (Plin., N.H. XV, 77), - forse nato per talea da quello originario
del Lupercale (Paus., Perieg., VII, 44; VIII, 23; IX, 22) - quello
poi che fu sradicato nel 260 ab.U.c. davanti al tempio di Saturno,
ed infine quello presente, insieme a vite ed ulivo, davanti al
Lacus Curtius. La stessa Dea Rumina “arbor erat: remanent vestigia
quaeque vocatur/ Rumina nunc ficus. Romula ficus erat” (Ov., F. II,
412): difatti “apud divae Ruminae sacellum a pastoribus satam ficus!
Ibi enim solent sacrificari lacte pro vino” (Varro, R.R. II, 3, 5).
Impronte di Ficus carica - la cui introduzione, per alcuni studiosi,
è stata attribuita ai Focesi nel VI sec. a.C. - sono da tempo state
identificate in depositi di tufi e travertini che datano dall’interglaciale
Mindel-Riss ed al Riss-Wurm, in Provenza e Linguadoca.
Ad un ramo di quercia invece era stato appeso, secondo una
versione del mito, il celebre Vello d’Oro cercato dagli Argonauti
e famosa divenne appunto la quercia sacra con il suo ramo d’oro
del ben noto nemus Aricinum (Serv., ad Aen. VI, 136), nonchè la
rielaborazione ovidiana (Met. VIII, 741-750) di una quercia centenaria
nel bosco sacro di Cerere (Call., Inn. Dem. 25), così come
un importante e singolo oleastro, consacrato a Fauno: “forte sacer
Fauno foliis oleaster amaris/ hic steterat, nautis olim venerabile
lignum/ servati ex undis figere dona solebant/ Laurenti divo et votas
suspendere vestis” (Verg., Aen. XII, 766). Quest’ultimo esempio ci
introduce inoltre al motivo rituale dell’oblazione cultuale tramite
sospensione di ex-voto, gli αναθηματα quali offerte, doni ed
anche trofei dei vinti, sia “directement aux branches des arbres
du lucus” sia “à un tronc, sur l’arbre seul [...] fixée à l’arbre” (33):
un’usanza documentata appunto sia nelle fonti letterarie (Anth.
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 285
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
Pal. VI, 35; 57; 96; 106; 110; 168; 221; 255; 262; 331) che in quelle
artistiche. All’elenco - fin qui già abbastanza significativo per
evincere uno specifico culto di singoli alberi sacri - c’è da aggiungere
l’albero di Atedio Meliore nel suo giardino sul Celio, l’arcaico
mons Querquetulanus, ricco di querce, che fù indubbiamente
un albero sacro per com’è descritto e celebrato mitologicamente
(Stazio, Silv. II, 3): la sua forma bizzarra infatti era dovuta
al suo tronco che, incurvato fino a toccare il livello dell’acqua
del laghetto sottostante, si raddrizzava e puntava sino al cielo,
somigliante appunto al salice ripaiolo, spesso presente sulla
sponda di fiumi e laghi. Nel nemus consacrato al Dio Fauno, in
prossimità di una grotta, era poi noto un altro celebre faggio su
cui furono letti, nel I sec. d.C., dei versi a carattere profetico,
secondo il poeta Calpurnio Siculo: “Qui iuga, qui silvas tueor,
satus Aethere Faunus/ haec populis ventura cano; iuvat arbore sacra/
laeta patefactis incidere carmina fatis” (Egloga I, 43-45). Esisteva
anche un altro faggio sacro e venerato, fino all’età di Plinio,
accanto al celebre tempio di Juppiter Facutalis. Nella Creta preellenica
ci fù inoltre proprio un Dio-albero, per alcuni studiosi,
presunto predecessore di Zeus; quest’ultimo poi, sull’Ida e sul
Ditte veneratissimo, come noto, fu anche un Dio della quercia
sacra e della vegetazione, giovane e mortale, la cui culla era
appesa ad un salice davanti alla grotta sacra dell’Ida, ad ogni
momento della commemorazione della sua nascita. Proprio
all’interno di un platano a foglie perenni, a Gortina, Zeus si unì
con Europa. Altri alberi oracolari erano poi presenti a Page, ove
si consultava un pioppo nero (Populus nigra) sacro ad Era, e ad
Egira in Acaia, dove c’era un altro pioppo nero sacro a Persefone;
a Roma invece quest’albero era sacro al Dio Sabazio, divinità
della terra, i cui rami aspersi con acqua lustrale erano portati in
processione nella sua festa. Lo stesso Eracle si cinge il capo con
una corona di foglie di pioppo nero quando scese nell’Ade e,
sempre in questa pianta, furono mutate le Eliadi, sorelle di
Fetonte, una delle Esperidi e la mortale Leuce, per volere di Ade:
una polarità antitetica, elisia, ebbe invece il pioppo bianco (Populus
alba) nella mitologia classica. Anche il Bosso (Buxus sempervirens),
originario del Ponto Eusino, per il De Gubernatis, dal
fogliame eterno e scuro, in Grecia antica era un arbusto sacro a
Plutone. I Corinzi inoltre, dal pino somigliante a Dioniso che
adoravano, ricavarono due sue immagini lignee. Proprio in un
pino viene trasformata la ninfa arborea Pitis (Nonno, Dion., II,
108, 118) ed un Pino sacro, ad ombrello (pino domestico, Pinus
pinea < i.e. PINI-) - il cui tronco era avvolto in bende di lana purpurea
con ghirlande di viole, con cembali e timpani appesi ai
rami - rappresentava il cadavere del Dio morente della Vegetazione,
ossia l’Arbor intrat dei Misteri frigi, l’albero in cui si trasformò
Attis (Ovidio, Met., X, 103-105), ritenuto appunto il più
generoso tra gli alberi (Plin., N.H, XVI, 107) e portato da una
solenne processione di dendrophori sul Palatino; nella sua stessa
pigna gli orfici vi vedevano il cuore di Zagreo. A Roma il pino
era un albero sacro sia alla Dea Cibele che alla casta Diana. Pinus
pinea, originario del Mediterraneo occidentale, per alcuni studiosi
è stato introdotto e coltivato in Italia sin da età etrusca.
Altre querce sacre erano venerate ad Egina, discendente diretta
di quella dodonea, sui monti Eta e Liceo in Arcadia, a Platea in
Beozia ed in cima al Citerone (Paus., Perieg., IX, 3). Il frassino (i.e
OSINO- > fraxinus excelsior) diversamente, era sacro a Ποσειδων,
(da Ποτειδαν < ποτιζω = dar da bere; ιδα = monte boscoso): nel
suo arcaico culto oracolare a Delfi, pelasgico e pre-apollineo, si
profetizzava appunto tramite un interprete detto Πυpkον (Plut.,
Mor., 406), atto a divinare tramite il fulmine attratto proprio dal
frassino; la stessa lancia di Achille era costituita da questo legno
(Om., Il., XX, 277). La centralità e primazia del sacro frassino
Yggdrasill con le sue ninfe melie (μελια = frassino), nonchè l’enorme
e misterioso albero venerato in prossimità del tempio dei
Senoni nella mitologia germanico-scandinava (Tac., Germ.,
XXXIX), attestano il protrarsi dell’importanza del singolo albero
quale albero cosmico, pilastro del Mondo, collegamento con gli
antenati, la veggenza ed il culto oracolare. Diversi altri alberi
poi, tra cui il sambuco, l’ontano, il nocciolo ed il melo erano
venerati presso gli antichi celti anche per le loro proprietà medicinali
(34). Lo stesso olivo, Olea europaea fù sacro alla Dea Aθηνα
che ne piantò il primo esemplare nella mitica contesa con Ποσει-
δων per il possesso dell’Attica. Quest’albero venne coltivato perlomeno
fin dal II millennio a.C. nell’area mediterranea, con tracce
fossili che rimandano tuttavia al neolitico, e fu introdotto
prima in Grecia da Eracle - piantato dal re dell’Attica Cecrope
verso il 1582 a.C. - poi in Italia - per alcuni studiosi probabilmente
al tempo dei Tarquini - nel VI sec. circa, e divenne subito
oggetto di culto presso i Greci che ostracizzavano appunto
chiunque si permetteva di abbatterne anche un solo esemplare.
Celebre l’episodio degli Spartani che durante il saccheggio di
Atene, ne risparmiarono tutti gli alberi di olivo per sacro timore.
Ad Eleusi vi fu infatti una pianura di olivi ritenuta sacra, menzionata
nello stesso Inno omerico a Demetra. Ad Olimpia un oleastro
- relitto di un più antico boschetto di olivi, ivi piantato da
Eracle Dattilo (la cui clava era appunto d’olivo), donati loro dai
sacerdoti di Apollo – era oggetto di culto ancor ai tempi di Plinio
(N.H., XVI, 240); a Roma quest’albero era sacro sia a Giove che a
Minerva. Così anche il cipresso (Cupressus sempervirens), fù sempre
oggetto di venerazione da parte degli antichi popoli mediterranei,
che lo impiegarono sia nei recinti funerari che nella statuaria:
era sacro infatti a Dite, al Dio Plutone dei morti; secondo
Plinio (N.H., XVI, 139) poi, la specie fu probabilmente introdotta
poco prima dei tempi in cui visse Catone. L’albero di palma
(Phoenix dactylifera), simbolo della Vittoria e della gloria militare
nel mondo romano, detto anche Dea Palmaris, ebbe un simbolismo
così vasto nell’antico mediterraneo che nella stessa architettura
egiziana, come noto, tutte le colonne sono state esemplate
sul modello di questo veneratissimo albero, sacro appunto alla
Dea Hator. Ad un germoglio di palma, sull’ara di Apollo a Delo
infatti, è paragonata Nausicaa dallo stupito e compiaciuto Ulisse
(Om., Od., VI, 160-163), ed in forma di due palme - presagio di
futura grandezza - saranno visti in sogno dalla vestale Rea Silvia
i due divini gemelli (Ov., Fasti, III, 1). Il noce (Juglans regia) invece
(nux iuglans > Iovis glans = ghianda di Giove, per alcuni etimologisti),
era sacro a Giove ed i suoi frutti erano considerati
nuziali (Plin., N.H., XV, 86; Serv., Schol., Bucol. VIII, 29); infatti lo
sposo spargeva noci durante le nuptiae. Tracce fossili di quest’albero,
sono state ritrovate da tempo vicino Ginevra, in depositi
dell’interglaciale Mindel-Riss: per alcuni studiosi proviene dall’area
compresa tra Mar Nero e Mar Caspio e, nell’età del bronzo,
dovrebbe essere arrivato sia in Grecia che nelle Alpi, in Italia.
Nell’antica Grecia sembra fosse d’uso ai bambini di 9 anni, far
piantare un noce, ritenuto essere appunto una sorta di “seconda
madre”. Il mitologo Cattabiani non mancò inoltre di ricordare
che, tra le presunte cause della “cattiva” fama di quest’albero,
sembra esserci proprio la juglandina, ossia una sostanza tossica
contenuta sia nelle radici che nelle foglie di quest’albero che,
potrebbe aver accentuato il grande rilievo avuto da quest’albero,
anche nella seriore tradizione stregònica. Con l’alloro (Laurus
nobilis), pianta per eccellenza sacra ad Apollo, erano poi coronati
i vincitori di giochi e battaglie in età greco-romana (Plin. N.H.,
127): a Tebe, in onore del Dio, si tenevano le Dafneforie e, a Delfi,
dove un tempio di Apollo fu costruito in soli rami d’alloro, la
Pitia, come noto, masticava le foglie del lauro consacrate, prima
di inspirare i sacri fumi profetici e divinare: ben nota inoltre era
la valenza profetica desunta dal crepitìo della pianta sul fuoco
(Tibullo, Carm., II, 5, 81-84), tanto che se l’alloro dava buoni
auspici, si diceva, Cerere avrebbe riempito i granai. Anche
Lucrezio non mancò di ricordare che: “nec res ulla magis quam
Phoebi Delphica laurus / terribili sonitu flamma crepitante crematur”
(De rer. Nat., VI, 154-155). La stessa potatura della pianta, la cui
coltivazione era obbligatoria nei giardini della Roma imperiale,
demandata ai sacerdoti della Dea Pomona, prevedeva infatti la
bruciatura dei rami e la sepoltura delle ceneri ai piedi dello stesso
albero, nonchè la conservazione nel tempio del Dio degli
attrezzi utilizzati. Per alcuni studiosi la pianta proviene dall’Asia
Minore, tuttavia molte impronte di Laurus nobilis furono
ritrovate nei tufi dell’ultimo interglaciale, vicino Marsiglia e
Montpellier (L.Laurent 1932, N.Boulay 1887), sempre accompagnate
a specie indigene, dimostrando una grande diffusione di
una varietà esotica di questa pianta, sulle coste mediterranee fin
dall’era terziaria (35). Arbusto sacro al Sole quindi, era abitudine
piantarlo davanti alle porte dei cesari e dei pontefici, così vigilando
sugli ingressi: la stessa statua di Giove veniva coronata
con foglie di lauro proprio in occasione della celebrazione dell’esito
vittorioso di battaglie. (Plin., N.H., XV, 127). Lo stesso Isidoro,
ancor nel VI sec., scriveva sul lauro: “[...] Sola quoque haec
arbor vulgo fulminari minime creditur” (Etym., VII, 2). Diversi secoli
dopo, richiamandosi a celebri versi di Virgilio, “Et vos, o lauri,
carpam, et te proxima mirte, sic positae quoniam suaves miscetis odores” (Eclog.,
II), l’irripetibile ed ineguagliabile archeologo Giacomo Boni (Terra Mater), questo
ci rimembra: “Le querce, i cipressi ed i pini di nostra Terra Mater custodiscono
quel luogo sacro alla virtù, all’onore e alla reduce Fortuna: i lauri e i mirti di Valle
Murcia ripetono: la Dea Roma qui dorme”.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(Ierobotanica rituale e fitonimie greco-italiche)
(1) Su cui M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Torino 1996,
pp. 275-276; A. Manzi, “Gli Alberi degli Dèi”, in I Luoghi degli
Dèi. Sacro e Natura nell Abruzzo italico, Catalogo (a c. di A. Campanelli,
A. Faustoferri), Pescara 1997, pp. 156-158, nonchè, De
Arbore (Catalogo della Mostra), Roma 1991.
(2) Il più antico giardino “sacro”, il primo kηπος mediterraneo
identificato tramite scavi archeologici, sembra essere stato
quello di Kition a Cipro, la cui creazione rimanda al XIII sec.
a.C., su cui, V. Karageorghis, Kition. Mycenean and Phoenician
Discoveries in Cyprus, London, 1976, in part. pp. 54-57, 62-76, 82-
89. Cfr. poi C. Picard, Jardin sacrés, in “Revue archéologique”,
XII, 1938, pp. 245-247; G. Lugli, L arte dei giardini presso i Romani,
in “Bollettino dell’Associazione Archeologica Romana,” 1918,
pp. 27-80; Id., Giardini e Ville in Roma antica, in E. De Ruggiero,
Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, vol. III, Roma 1919, pp.
993-1044.
(3) Su cui G. Serra, La Vermenagna ed il culto della Verbena, in
“Rivista di Studi Liguri”, XVII, 1951, pp. 117-131.
(4) Cfr., A. Coen, Corona etrusca, Viterbo 1999, ove s’individuano
diverse tipologie, iconografie e funzioni; cfr. in part. pp. 179-188
(ambito militare), pp. 188-197 (ambito cultuale), pp. 197-213
(ambito funerario). La stessa Saffo così dice: “le offerte di fiori
sono gradite agli Dèi che detestano tutti coloro che compaiono
dinnanzi a loro senza il capo cinto da una corona”. Cingere le
tempie pulsanti con ghirlande d’erbe o fiori, quali il mirto e le
rose, era un rimedio consigliato inoltre per dissolvere i fumi dell’ebrezza
da vino.
(5) Su cui cfr. P. Poccetti, “Fata canit foliisque notas et nomina mandat.
Scrittura e forme oracolari nell’Italia antica”, in Sibille e Linguaggi oracolari. Mito,
storie, tradizione. Atti del Convegno (Macerata-
Norcia, Settembre 1994, a.c. di I. Chirassi Colombo, T. Seppilli),
Pisa-Roma 1999, pp. 75-105.
(6) Cfr. L. Kaiti, Piante e Profumi magici, S. Giovanni la Punta (CT)
1993, pp. 7-12. Sull’importanza degli alberi plurisecolari cfr.
Giganti protetti. Gli alberi monumentali in Emilia-Romagna (a c. di
T.Tosetti, C. Tovoli), Bologna s.d., pp. 10-11.
(7) Cfr. J.-L. Brunaux, “Les bois sacrés des Celtes et des Germains”,
in Les Bois sacrés. Actes du Colloque International organise
par le Centre J. Berard et l Ecole des Hautes Etudes (Naple, 23-25 nov.
1989), Napoli 1993, pp. 58-65. L’autore infatti menziona il solo
esempio di età hallstattiana a Burkovac in Cecoslovacchia, ove in
“une petite aire cultuelle circulaire [...] où gisaient une grande
quantité de plaques de terre cuite, découpées en forme de feuille
et percées pour etre suspendues à une arbre, (p. 62). Sul nemeton
celtico cfr., P.Y. Lambert, Le “nemeton” gaulois et les lieux consacrés
connus à travers l épigraphie gauloise, “MEFRA-Antiquité”,
cds. Sull’importanza degli alberi nelle tribù germaniche non-cristianizzate,
cfr. D. Werkmuller, Gli alberi come segno di confine e
luogo di giudizio nel diritto germanico medievale, in L ambiente vegetale
nell Alto Medioevo, Atti dell incontro di studio CISAM (30/3-
5/4/1989), Spoleto 1990, voll. I-II, in part. pp. 461-476.
(8) Cfr. la rigorosa disamina di G. Capdeville, “De la foret initiatique
au bois sacrés”, in Les Bois sacrés cit., in part. pp. 128-135.
Sul tema del Re del bosco cfr., J. Frazer, Il Ramo d Oro. Studio sulla
Magia e la Religione, Roma 1992, pp. 20-28. Cfr. anche, R. del
Nero, Gli alberi e il loro culto nel Tusculano, in AA.VV., Il Bosco sacro
(a c. di E. Zola, M. Maymone Siniscalchi), Foggia s.d., pp. 71-73.
(9) Su cui il fondamentale saggio di D. Briquel, “Les voix oraculaires”,
in Les Bois sacrés cit., pp. 78-90, con particolare riferimento,
nella diversa casistica esaminata, al celebre esempio di
Aius Locutius o Loquens ed alla profonda esegesi semantica di
Faunus, “απο της φωνης dictus quod voce, non signis futura ostendit”
(Serv., ad Verg., Aen., VII, 81). Su Arsia Silva cfr., A. La Regina,
Lexicon Topographicum Vrbis Romae. Suburbium (=LTURS), A.
La Regina ed., I, s.v., Roma 2001, p. 160. Su Maesia Silva, cfr. P.
Liverani, LTURS, IV, s.v., Roma 2006, p. 11.
(10) Per una sintesi paleobotanica cfr., L. Cattani, Considerazioni
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 291
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
floristiche sull evoluzione degli ambienti, in Italia Preistorica (a c. di
A. Guidi, M. Piperno), Roma-Bari 1993, pp. 46-67; M. Follieri, D.
Magri, Paesaggi vegetali della campagna romana, in Elefanti a Roma
(a c. di P. Gioia), Roma 2004, pp. 29-30; A. Malatesta, Geologia e
Paleobiologia dell era glaciale, Roma 1985, pp. 205-209.
(11) Per una disamina etnografica della silva cfr. J. Frazer, Il Ramo
cit., pp. 139-150, ed anche R. Gelsomino, Selva, in “Enciclopedia
Virgiliana”, ad vocem, I-V, Firenze 1996, pp. 757-760. Sulle selve
primitive a Roma cfr., G. Stara-Tedde, I boschi sacri dell antica
Roma, Roma 1905, pp. 8-12 (estratto); Ibid., in “Bullettino Commissione
Archeologica Roma”, 33, 1905, pp. 189-232; Id., Ricerche
sull evoluzione del culto degli alberi dal principio del sec. IV. in poi,
ibid., 35, 1907, pp. 129-181. Cfr. poi, P. Lieutaghi, Il libro degli alberi
e degli arbusti, (tr.it. D.Rosso, B.M. Venturi), Milano 1975, vol.
II, pp. 701-704. Sulla silva medioevale cfr., R. Bechmann, Des
Arbres et des hommes. La foret au Moyen Age, Paris 1984, pp. 186-
187. Sull’etimo Perqunia- e la foresta indoeuropea cfr. A. Romualdi,
Gli Indoeuropei. Origini e Migrazioni, Padova 1978, p. 41; G.
Devoto, Origini Indoeuropee, Firenze 1962, p. 251, e P. Friedrich,
Proto-Indo-European Trees, London 1970, pp. 139 ss.
(12) Sulla religione dei boschi sacri, P. Grimal, I Giardini di Roma
antica, Milano 1990, in part. pp. 61-63; utile, inoltre, la breve disamina
di I. Novelli, I boschi sacri di Roma antica, Ente Regionale per
la Gestione del Sistema delle Aree Naturali protette nel Comune
di Roma (on-line version), che concerne un elenco di 28 antichi
boschi sacri all’interno dell’attuale città di Roma; Luci: Facutalis,
Larum Querquetulanum, Esquilinus, Poetelius, Mefitis (Varro, L.L.,
49, 50), Junonis Lucinae, Vestae, Strenuae, Asyli, Bellonae, Feroniae,
Lauretum, Furrinae (a meridione dell’Aurelia Vetus, sulla pendice
boscosa dell’attuale Villa Sciarra, in origine consacrato a una
divinità etrusca poi orientalizzato), Albionarum, Petelinus, Semeles,
Annae Perennae, Permagnus, Sacri Nemus Argileti, Murtia,
Viminalis, Fauni. Sono poi da aggiungere il Lucus Libitinae Esquilino,
nonchè il Siluani lucus extra murumst avius / crebro salicto
oppletus (Plaut., Aul., 674-675) - fuori le mura, impenetrabile,
pieno di salici frondosi [..], quasi un recinto selvaggio in quella
forma arcaico-romana, dove il bosco sacro è appunto un angolo
di terreno tabù e intoccabile (P. Grimal, p. 171) - nonché, ovviamente, il Lucus Dea Dia, ossia un lucus d’importanza nazionale
come quello degli Arvali che non poteva essere potato, nè oggetto
del minimo cambiamento.
(13) Per la complessa esegesi semantica dell’antica festività dei
Lucaria, sui composti (con-, inter-, sub-) del verbo lucare, sulla
misteriosa e mitica Λευkαpια madre di Rhomé (Plutarco, Rom., II,
1), figlia di Latino (Dion. D’Alicarn., I, 72, 6), per alcuni studiosi
probabile sinonimo di Silvia, nonché “Signora dei terreni disboscati,
della radura”, si veda appunto, G. Dumézil, Feste romane
(trad. e c. di M. Del Ninno), Genova 1983, in part. pp. 45-58. Sul
concetto discusso di lucus, cfr. S. Panciera, “La lex luci spoletina
e la legislazione sui boschi sacri in età romana”, in Monteluco e i
Monti sacri (Atti dell’incontro di studio, Spoleto 30/9-
2/10/1993), Spoleto 1994, in part., nota 2, pp. 25-26.
(14) Cfr. la dettagliata messa a punto di C. Ampolo, “Boschi sacri
e culti federali: l’esempio del Lazio”, in Les Bois sacrés cit., pp.
160-167. Di seguito, un breve elenco inerente sia i tre più celebri
santuari federali latini, sia santuari latini non federali o località
comunquesia legati al lucus: […] lucum Nemorensem Dianae consecravit
(Fest., 128 L); lucum Dianium in nemore Aricino […] (Prisc.,
Gramm., IV, H, VII, H); in suburbano Tusculani agri colle, qui Corne
appellatur, lucus antiqua religione Dianae sacratus a Latio […] (Plin.,
N.H., XVI, 91, 242); il lucus Ferentinae (su cui, G. Colonna, Il Lucus
Ferentinae ritrovato, in “Quaderni di Archeologia Etrusco-Italica”,
CNR, VII, Roma, pp. 40-43) sotto il Mons Albanus (Liv., I, 50, 1,
51, 9; 52, 5; II, 38,1; VII, 25, 5; Dion. Hal., III, 34, 3; 51, 3; IV, 45, 3;
V, 61, 2; Plut., Rom., 24, 2; Fest., 276 L); compitum Anagninum in
luco Dianae (Livio, XXVII, 4, 12); luculus Tiburni a Tivoli (Suet., de
poetis); lucus Iunonis Sospitae a Lanuvio (Liv., VIII, 14); flamen
lucularis Laurentium Lavinatium (CIL, XI, 5215, 5216); […] Albani
tumuli atque luci (Cic., Mil., 31, 85). A Roma poi sia l’Aesculetum
che il lucus Petelinus (Plin. N.H., XVI, 10, 37; Varr., L.L., V, 152;
Liv., VI, 20; VII, 41; Plut., Cam., 36), furono due boschi sacri sedi
di riunioni.
(15) Su cui cfr. G. Stara-Tedde, I boschi cit., pp. 5-6. Sul lessico
botanico greco-latino, cfr. poi J. André, Lexique des termes de botanique
en latin, Paris 1956; Id., Notes de lexicographie botanique grecque,
Paris 1958; Id., Les noms des plantes dans la Rome antique, Paris
1987; W.G.T. Dyer, On some ancient plant-names, in “Journal of
Philology”, XXXIII 1914, XXXIV, 1915; J. Sargeaunt, The trees,
shrubs and plants of Vergil, Oxford 1920; M. Grenier, La flore des
Bucoliques de Virgile, in “Revue belge de Philologie”, 1938, p. 579
ss. Cfr. anche, G. Massari, I Boschi sacri, in L’ecosistema Roma,
ambiente e territorio, Roma 1995; L. De Santis, Gli Alberi di Roma,
Roma 1997, in part, pp. 61-62.
(16) Cfr. infatti P. Grimal, I Giardini cit., nota 17, p. 73: sorprendente
infatti il confronto istituito dall’autore, tra il giardino di
Calipso, così “armonioso e sensuale”, vera antitesi al bosco di
Marsiglia descritto da Lucano (Phars., III, 399) e appunto così
distante anche da quel particolare nemus […] (qui deus incertum
est) habitat deus, che fu la “terribile” rupe del Campidoglio (Virg.
Aen., VIII, 347).
(17) V. infatti la magistrale disamina di C. Jacob, “Paysage et bois
sacré: αλσος dans la Périegèse de la Grèce de Pausanias”, in Les
Bois sacrés cit., pp. 32-44. Fa notare infatti l’autore che quando il
sostantivo αλσος è accompagnato dall’epiteto ιεpον “nous sommes
ici en présence d’un bois sacré au sens strict du terme”. L’espressione
αλσος ιεpονè però tutt’altro che frequente; le poche
occasioni in cui riccorre questo termine “montre que les bois
sacrés de Pausanias concernent à peu près tout le panthéon
olympien [...] l’αλσος n’est pas associé à une divinité unique,
régnant sur les arbres et les forets”. L’αλσος infatti “en l’absence
d’un culte explicitement rendu aux arbres et au bois lui-meme,
reste de toute facon un espace naturel qui contient des monuments
ou des édifices religieux [...] est un espace sacré qui peut
varier d’une aire renfermant trois statues de dieux à un complexe
monumental très étendu, comme les grands sanctuaries
[...] souvent associé aux grands cultes panhelléniques (Némée,
Olympie, Epidaure) et aux rituel oraculaires (Trophonios)”. Sul
concetto di dimora degli Dèi, P. Grimal, I Giardini cit., pp. 72-73.
(18) Per la rassegna di boschi sacri greci e divinità associate, cfr.
C. Jacob, Paysage et bois sacré cit., in part. pp. 34-35, 40-44 (boschi
e paesaggi letterari).
(19) Su cui cfr. D.B. Thompson, R.E. Griswold, Garden Lore of
Ancient Athens, American School of Classical Studies at Athens,
1982, in part. pp. 6-12. In part. per la datazione cfr. D.B. Thom294
- SILVÆ - Anno VI n. 13
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
pson, The Garden of Hephaistos, in “Hesperia”, VI, 1937, p. 408,
nonchè C. Picard, Les prétendus Jardins d Héphaistos à Athènes, in
“Revue archéologique”, XI, 1938, pp. 102-105. Sui giardini nella
tradizione filosofica v. la sintesi di P. Grimal, I Giardini cit., pp.
76-77.
(20) Cfr. infatti J. Scheid, “Lucus, nemus. Qu’est-ce quùn bois
sacré?”, in Les Bois sacrés cit., pp. 14-15 (rassegna letteraria e storiografica
sui termini lucus, nemus, àlsos).
(21) Cfr. G. Capdeville, “De la foret initiatique au bois sacrés”, in
Les Bois sacrés cit., p. 143; da notare appunto che “la foret s’est
réduit à un bois ou à un jardin, mais on n’à pas oublié les rites,
don’t ces espaces consacrés avaient justement pour but de
perpétuer le souvenir”.
(22) Su cui cfr. A. Pasqualini, in Diz.Epigr.Ant.Rom., IV, 62/63,
1975, pp. 1969-1993, nonché S. Panciera, La lex cit., note 4-7, pp.
26-27 (su Tabula Siarensis, frg. I: in montis Amani luco; Superaequum:
lucus Silvani Augusti; Aquinum: [Fl]osae lucum [?]), e note
64-68, pp. 45-46 (luci dell’Umbria).
(23) Su cui cfr. i dati archeobotanici di A. Altieri, G. Galotta, “I
macroresti vegetali: fisionomia di un paesaggio e presenza
umana”, in Il Santuario della Musica e il Bosco sacro di Anna Perenna
(a c. di M. Piranomonte), Roma 2002, pp. 60-69, nonchè M.
Piranomonte, “Anna Perenna e il suo nemus nelle fonti antiche”,
in Il Santuario cit., pp. 70-71; Ead., Annae Perennae nemus, in
LTURS, I, s.v., Roma 2001, pp. 59-63, ove ci si sofferma sugli altri
luoghi sacri alla Dea/Ninfa, presso Lavinio, Boville (Lazio) e
Buscemi (Sicilia), ed ivi bib.
(24) Su Dea Diae lucus cfr. J. Scheid, LTURS, II, s.v., Roma 2004,
pp. 189-191, ed ivi bib. Su Furrinae lucus cfr., C.-J. Goddard,
LTURS, II, s.v., ibi, pp. 278-284, ed ivi ampia bib. Su Camenae
lucus cfr., E. Rodrìguez Almeida, Lexicon Topographicum Urbis
Romae (=LTUR), E.M. Steinby ed., I, Roma 1993, p. 216. Su Martis
lucus cfr., F. Coarelli, LTURS, IV, s.v., Roma 2006, pp. 44-45.
(25) Cfr. C. Jacob, Paysage cit., pp. 34-35. Sui cristiani ed il lucus
Dea Diae, cfr. G. Stara-Tedde, I boschi cit., p. 35, e G. De Rossi,
Roma sotterranea cristiana, III, p. 693.
(26) Sulla ferocia cristiana contro boschi ed alberi è utile richiamare,
tra i tanti episodi più o meno noti - considerando l’acuirsi
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 295
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
tra X e XIII sec. d.C. dell’avversità, nonché di una vera e propria
“demonizzazione” del bosco (specie dopo l’XI sec.), dell’incolto
e del selvaggio sentiti come “nemici” a tutti gli effetti - l’episodio
del missionario Girolamo di Praga che cercava di convincere i
Lituani “miscredenti”, convertiti al Cristianesimo solo nel XIV
sec., ad abbattere i loro boschetti sacri, cfr. infatti J. Frazer, Il
Ramo cit., p. 148. Sulla categorizzazione di alcuni dei numerosi
episodi, cfr. F. Cardini, “Boschi sacri e Monti sacri fra tardoantico
e altomedioevo”, in Monteluco cit., in part. pp. 12-13, e nota 37,
p. 15, e pp. 16-17 (esempi di “dendrolatria” balto-slava e celtogermanica).
Utile anche la breve ma eloquente rassegna sui cristiani
persecutori dei boschi sacri, di J. Brosse, Mitologia degli
Alberi. Dal giardino dell Eden al legno della croce, Milano 2007, pp.
156-158.
(27) Cfr. P. Lieutaghi, Il libro cit., vol. II, p. 703. Cfr. poi M. Pastoreau,
Medioevo simbolico, Roma-Bari 2005, pp. 81-86, ove si pongono
interrogativi molto interessanti sulle valenze e l’uso del
legno di alberi ritenuti benefici (tiglio, frassino, faggino, olmo) e
di altri ben noti come malefici (tasso, noce, ontano), anche per
alcune peculiari proprietà tossiche. Cfr. anche Id., La foret médiévale:
un univers symbolique, in Le Chàteau, la Foret, La Chasse. Actes
de II rencontres internationales de Commarques (23-25 sett. 1988),
Bordeaux 1990, pp. 83-98.
(28) Su cui cfr. J.-L. Gaulin, Tra silvaticus e domesticus: il bosco nella
trattatistica medievale, in Il bosco nel Medioevo (a c. di B. Andreolli,
M. Montanari), Bologna 1995, pp. 68-78. Sul bosco nell’epica
cavalleresca ed in Dante, Petrarca, Boccaccio, cfr. P. Golinelli, Tra
realtà e metafora: il bosco nell immaginario letterario medievale, in Il
bosco cit., pp. 79-100, ed ivi bib. Sul bosco magico ed incantato,
tra Boiardo e Tasso, cfr. M. Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo. Il
sacro bosco tra arte e letteratura, Milano 2000, pp. 207-215.
(29) Cfr. infatti F. Coarelli, “I luci del Lazio: la documentazione
archeologica”, in Les Bois sacrés cit., pp. 46-52. L’autore poi (p.
46), evidenziando i dati epigrafici desunti anche dalle fonti letterarie,
fa notare che “fin dalla più antica testimonianza della
parola cui si possa attingere (e che risale con tutta probabilità
alla fine del VI sec.), lucus è proprio un quid in qualche modo
artificiale, ossia lo stesso santuario costruito artificialmente con i
suoi vari recinti”, trattasi quindi di un intervento umano all’interno
di una situazione naturale intatta, ossia “numinosa”, una
“radura all’interno di un bosco, ma non il bosco stesso (nemus,
silva)”. In origine, per Coarelli, neanche il termine nemus può
difatti riferirsi a quella definizione di composita multitudo arborum
(Serv. Ad Aen., I, 130), ripresa poi da Grimal e Scheid, bensì di
arborum multitudo cum religione, descrizione appunto ritenuta dal
Coarelli originaria di nemus e del successivo mutamento semantico
di lucus. Diversamente, proprio la silua è multitudo arborum
diffusa et inculta (Serv. Ad Aen., I, 314), ma può designare anche
il frutteto (Virg., Georg., IV, 329) e il parco appunto in cui fioriscono
alberi sterili. Ci troviamo quindi di fronte ad un’assimilazione
che l’autore esegue tra lucus e templum, su cui cfr. inoltre,
F. Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, Roma 1987, pp.
16-20.
(30) Sul culto della quercia, cfr. P. Lieutaghi, Il libro cit., pp. 701-
704; A. Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante,
Milano 2008, pp. 49-60; A. de Gubernatis, La Mythologie des Plantes,
ou les Légendes du Règne végétal, voll. I-II, Paris 1878-1882 (ed.
cons. Milano 1976); J. Frazer, Il Ramo cit., pp. 194-196; G. Masa,
Quercia, in “Enciclopedia Virgiliana”, ad vocem, I-V, Firenze 1996,
pp. 368-370. Sul significato di determinati alberi in Grecia antica
v., D. B. Thompson, R. E. Griswold, Garden Lore cit., in part. pp.
22-29 (olivo, platano, quercia, cipresso, palma, pioppo, lauro,
oleandro e mirto). Sul culto degli alberi più in generale, cfr. J.
Frazer, Il Ramo cit., Roma 1992, pp. 139-150, nonchè J. Brosse, La
Magie des plantes, Paris 1979, Id., Storie e Leggende degli Alberi,
Pordenone 1989, Id., Mitologia cit., in part. pp. 59-65, 71-79 (querce
sacre), 168-170 (lauro), 173-174 (cipresso), 227- 235 (ulivo) nell’Italia
romana ed in Grecia antica.
(31) Un culto degli alberi che risale fino ad epoca micenea è stato
sostenuto da M. P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion. I.
Munich, 1967, pp. 209-211, sebbene le prove addotte risultino
solamente due esempi. Per un’esegesi storiografica critica è fondamentale
J. Scheid, Lucus, nemus. Qu est-ce quùn bois sacré? cit.,
in part. pp. 15-16. Cfr. poi G. Capdeville, “L’épiphanie du dieu
dans l’arbre et le culte de l’arbre sacré en Crète et a Chypre”, in
Dieux, Fètes, Sacré dans la Grèce et la Rome antiques. Acte du ColloSILVÆ
- Anno VI n. 13 - 297
Ierobotanica rituale e fitonimie sacre greco-italiche
que tenu à Luxembourg (24-26/10/1999, a c. di A. Motte, C.-M.
Ternes), Brepols 2003, pp. 23-52; J. Evans, Mycenean tree and pillar
cult, in “Journal of Hellenic Studies”, 1901, p.181 sgg; R. Vallois,
Autels et culte de l arbre sacré en Crète, in “Revue d’Etudes Anciennes”,
XXVIII, 1926, p. 121 sgg..
(32) Cfr. P. Grimal, I Giardini cit., pp. 171-172, nota 20. Per una
specifica disamina filologica e storico-religiosa delle diverse specie
arboree cfr. il fondamentale lavoro sul mondo egeo-anatolico,
di I. Chirassi Colombo, Elementi di culture precereali nei miti e riti
greci, Roma 1968, in part. pp. 17-38 (mirto), 55-72, (fico), pp. 73-
90 (melograno: Columella, De R.R. X, 242). Cfr. poi, M. C. Martini,
Piante medicamentose e rituali magico-religiosi in Plinio, Roma
1977, in part. pp. 100-101 (pino), 114 (quercia); P. Lieutaghi, Il
libro cit., pp. 168-170 (alloro); 335-337(edera); 360-362, 368-369
(fico); 382-384 (frassino); 762-764 (salice), 862-863 (vischio). Cfr.
inoltre G. Maggiulli, Albero, Arbusto, Lauro, Leccio, Olivo, Olmo,
Robur, e T. Mantero, Mirto, in Enciclopedia Virgiliana cit., ad voces,
pp. 81-83, 144-146, 164, 512-513, 836-839, 839-840, 540, nonchè Il
linguaggio delle piante nei simboli della Repubblica e del Vittoriano,
Corpo forestale dello Stato (on-line version).
(33) Per una disamina critica cfr. infatti l’accurata ricerca di O. de
Cazanove, “Suspension d’ex-voto dans les bois sacrés”, in Les
Bois sacrés cit., pp. 112-126, ed ivi bib. La sospensione rituale agli
alberi – molto diffusa quella di statuette in Grecia - è una pratica
sacrificale attestata anche presso Ubsola, nobilissimum templum
degli Sueones, in cui “est arbor maxima late ramos extendens [...]”,
dove in una festa pagana ogni nove anni, i corpi delle vittime
umane ed animali “suspenduntur in lucum qui proximus est templo”,
su cui, B. Schmeidler, Scriptores Rerum Germanicarum in usu
scholarum, Hannoverae-Lipsiae 1917, pp. 6,8,16, 108, 246, 257-
261, cit., in F. Cardini, Boschi cit., p.16.
(34) Su cui cfr. J. Brosse, Mitologia cit., pp. 9-16 ed ivi bib., nonché,
F. Sguazzin, “Boschi, Alberi, Piante medicinali nella cultura
celtica”, in KURM. Ipotesi e riscontri sulle presenze dei Celti e di altre
popolazioni preromane nella Bassa Friulana (a c. di R. Tirelli), Pasion
di Prato 2002, pp. 48-52. Su frassino e faggio, cfr. inoltre, A. Cattabiani,
Florario cit., pp. 43-49, 64-66.
(35) Sull’iconografia di queste piante, cfr. A. Ciarallo, Flora pompeiana antica,
 Napoli 2007, in part. pp. 17-26, 31-35, nonchè Ead.,
Elementi vegetali nell iconografia pompeiana, Roma 2006, ed anche
O. Comes, Illustrazione delle piante rappresentate nei dipinti pompeiani,
in Pompei e la regione sotterrata nel 79, Napoli 1879, pp. 177-
250. Sulla flora dei monumenti romani e del corrispettivo censimento
eseguito da G. Boni, cfr. M. de Vico Fallani, I Parchi archeologici
di Roma, Roma 1988, in part. note 28, p. 38 e 46, pp. 52-53.
Su olivo e noce cfr., A. Cattabiani, Florario cit., pp. 74-83, 390-397,
P. Lieutaghi, Il libro cit., pp. 516-517, 525-526, pp. 537-538. Sulla
palma, H. Danthine, Le palmier-dattier et les arbres sacrés dans l iconographie
de l Asie occidentale ancienne, voll. I-II, Paris 1937.