Articolo di RENATO DEL PONTE, desunto da:
"Favete Linguis - Saggi sulle fondamenta del sacro. in Roma Antica.
Genova, Arya Edizioni, 2010"
Così si chiede Plutarco nella 36° delle Questioni
Romane, che riportiamo per intero:
“Chiamano
una delle porte della città Thurís[1] (questo infatti significa fenestra) e
presso di essa c’è la cosiddetta camera della Fortuna. Perché? Forse perché il
Re Servio, che fu molto fortunato, ebbe fama di incontrarsi con la Fortuna che
gli faceva visita attraverso una finestra.
Oppure questa è una
favola; e invece il luogo ebbe tale denominazione dopo che, alla morte del Re
Tarquinio Prisco, sua moglie Tanaquilla, donna saggia e regale, sporgendosi da
una finestra si rivolse ai cittadini e li convinse a proclamare Re Servio”.[2]
Sempre Plutarco (questa volta ne La Fortuna dei
Romani, 10) riferisce dello stesso particolare:
“Egli
si legò a Fortuna e da lei fece dipendere la stessa sovranità, tanto che dette
a credere che Fortuna si congiungesse con lui, scendendo nella sua camera
attraverso la piccola finestra che ora chiamiamo Porta della Finestrella”.
Ma già prima di Plutarco Ovidio, nei Fasti, ha
raccontato dello strano rapporto fra la Dea Fortuna e Servio, riferendo di
questa finestra: “Intanto, timidamente, la dea confessa i suoi furtivi amori /
vergognandosi, lei creatura celeste, di essersi unita ad un mortale / - perché
da un forte desiderio fu presa per il re, / per questo unico uomo lei non fu
cieca – lei che di notte era solita entrare in casa sua per la finestra, / da
cui prende nome la Porta della Finestrella.”[3]
Tornerò brevemente sulla regina Tanaquilla alla
fine.
In questa sede non intendo affrontare per esteso la
questione del particolare rapporto che lega il sesto re di Roma con un essere
sovrannaturale e che, per questo motivo, molto lo avvicina al secondo re, quel
Numa Pompilio, il quale, secondo la tradizione, ebbe commercio carnale con la
ninfa Egeria, sua praeceptrix (Val. Max. I 2, 1 ) e consigliera.[4]
Rileverò soltanto che è stato opportunamente notato
come questo rapporto con esseri non-umani femminili accentui le caratteristiche
“sciamaniche” della specifica funzione svolta da quei due sovrani.
Infatti, sono “spose celesti”[5] che aiutano lo
sciamano nella sua istruzione e nella sua esperienza estatica. L’essenziale
studio di Mircea Eliade dedicato allo Sciamanismo[6] dedica molte pagine a tale
tematica e la figura di Numa Pompilio, ancor più che quella di Servio, si
presta a considerazioni di questo genere, sì che Egeria è stata giustamente
paragonata a quelle dākini (in sanscrito) o khandroma (in tibetano) che nella
tradizione himalayana si accompagnano a grandi guru o maestri tantrici
famosi.[7]
A questo proposito, sono impressionanti le similitudini
fra la pratica (attuata grazie a doti “naturali” e paranormali) di
condizionamento dei propri sogni, secondo le esigenze del momento e in un
contesto sacrale, presso i Sabini[8] - da cui proviene Numa – e l’insegnamento
iniziatico (di derivazione Bön e proprio alla scuola nyingma) della corrente
Dzogchen circa lo Yoga del sogno, di cui ha diffusamente parlato il Lama
Namkhai Norbu.[9]
Anche la lingua misteriosa e segreta delle dākini,
che solo i grandi terton o “scopritori di tesori” himalayani sono in grado
d’interpretare,[10] ha un parallelo con Egeria, la quale è spesso affiancata
dalle Camenae come consigliere di Re Numa e talora considerata come una di
loro.[11]
Ed è ben nota la funzione oracolare di queste e in
particolare di Carmenta, la ninfa madre di Evandro, di frequente alle Camenae
associata, artefice e tutrice di formule magiche, nonché introduttrice dei
quindici segni dell’alfabeto latino, formati a loro volta sulla base
dell’alfabeto pelasgico di Cadmo.[12]
Sulle caratteristiche “sciamaniche” di Servio Tullio
e, in questo contesto, sui suoi rapporti con la dea Fortuna, tratta
diffusamente Leonardo Magini nel suo recente La dea bendata. Lo sciamanesimo
nell’Antica Roma[13]. In tale dotto e ampio studio (che ha forse il difetto di
una certa asistematicità) l’episodio inquietante della “Finestrella di
Fortuna”, se pur citato, non è stato adeguatamente considerato, qualora si
tenga conto che può servire ad avvalorare la tesi dell’autore.
In un noto testo evangelico (Matteo XIX, 24) è attraverso
una “porta stretta” - la “cruna di un ago” - che si può accedere al Regno di
Dio. In un senso meno elevato, si può anche parlare, come Dante,[14] di
“passare per la cruna dell’ago” per indicare ogni passaggio da uno stato ad un
altro. Ciò implica una “morte” e una “rinascita”: ha quindi una valenza
iniziatica.
Come i defunti, gli sciamani nel loro viaggio
onirico debbono attraversare un passaggio pericoloso, dal momento che, come la
morte, lo stato estatico comporta un “mutamento”.
La finestrella che mette in comunicazione due mondi:
quello, sovrumano, di Fortuna, e quello, terreno (ma volto ad una condizione
apparentemente superiore all’ordinaria degli uomini normali, cioè alla funzione
regale) di Servio Tullio, ricorda proprio la paradossale situazione di certi
sciamani o degli eroi di certi miti riferita da M. Eliade. Essi debbono passare
per dove “notte e giorno s’incontrano” [si tenga qui presente il legame tra
Fortuna e la Luna], trovare – appunto – una porta in un muro “o salire in cielo
attraverso uno spazio che si apre per un attimo, o passare fra due macine in
continuo movimento, fra due rocce che ad ogni istante si rinserrano, fra le
mascelle di un mostro e via dicendo”.[15]
Sono, queste, immagini mitiche esprimenti la
necessità di trascendere i contrari – ha sottolineato A. Coomaraswamy – di
abolire la polarità che caratterizza la condizione umana: “Colui che vuole
trasportarsi da questo mondo nell’altro, o tornare a questo, deve farlo <
nell’intervallo> unidimensionale e atemporale che separa forze apparentate
ma contrarie, attraverso le quali si può passare solo fulmineamente”.[16]
Chi riesca a realizzare questo passaggio si può dire
che abbia superato la condizione umana: lo “sciamano” o “eroe” Servio lo ha
fatto, sfidando la sorte degli uomini. Congiungendosi - per mezzo della stretta
finestra – con la dea Fortuna, ha regnato con successo su Roma per 44 anni, ma
ne ha anche pagato il fio sulla svolta del Clivus Urbius, là dove il cocchio di
Tullia farà a brani le spoglie del suo cadavere sanguinoso[17]: e vien qui da
pensare alla funzione che proprio il cavallo riveste nella mitologia del
rituale sciamanico.
Animale psicopompo per eccellenza, è, nelle
cerimonie degli sciamani, immagine mitica della stessa morte.[18] Non per caso,
quindi, i cavali del Clivus Urbius (che, per giunta, alcuni hanno posto in
relazione con Virbius/Ippolito e a quanto ne deriva in riferimento ai cavalli) [19]
è come trasportassero direttamente Servio nell’aldilà. [20]
Quella “rottura di livello”, quel passaggio da
questo ad altri mondi che Servio aveva praticato attraverso la Finestrella di
Fortuna, ora ha mutato polarità. Dal momento che, se è vero che Fortuna audaces
iuvat, è anche ben nota la sua incostanza.
Una sors recante un’iscrizione su un ciottolo, proveniente
da Fiesole e risalente al II secolo a. C., così recita: “ni ceduas, Fortuna
Servios perit” (“se tu non cedi, [rammenta che]Fortuna uccise Servio).[21]
Ecco perché, attraverso la stretta finestra di
Fortuna che introduce nella camera di Servio, Tanaquilla volle proclamare Re di
fronte al popolo il suo protetto e favorito, che aveva designato a tale compito
sin da fanciullo. Alla “sposa celeste” che accorda allo sciamano i suoi
consigli e la sua protezione[22], fa da contraltare, sul piano umano, la grande
matrona regale della tradizione etrusca e mediterranea[23], così bene studiata
da Bachofen.[24]
E fu così che, attraverso la “porta stretta”, Servio
Tullio, il “servo” che era uno sciamano, poté diventare Re.[25] La “cavalcata
simbolica” legata alla sua fine esprime – sempre in un contesto sciamanico –
l’abbandono definitivo del suo corpo, la sua morte non solo “mistica” – in tal
caso – bensì tremendamente reale.
NOTE
[1] Letteralmente: “Porticina”. L’ubicazione di
questa “porta finestrella” è in apparenza sconosciuta. Tuttavia, se questa
finestrella è in rapporto con l’episodio di Tanaquilla (come appare evidente),
va messa in relazione colla Reggia di Tarquinio e questa, come riferisce Livio
(1,41) narrando di Tanaquilla, “era situata presso il Tempio di Giove Statore”,
mentre la proclamazione avvenne “per le finestre rivolte sulla Via Nuova”.
Quest’ultima correva ai piedi del fianco nord-occidentale del Palatino. Vedi
anche Dion. Hal. IV, 5, 1.
[2] Riporto dall’edizione BUR, Milano 2007, p. 97,
per la traduzione di Nino Marinone. Nella sua attenta Prefazione, John Scheid
rileva che “Le Questioni Romane non sono un’opera completamente esoterica” (p.
I), ma questo equivale a dire che, in relazione agli interessi e alle
competenze di Plutarco, gli esoteristi potrebbero trovare nelle Questioni pane
per i loro denti.
[3] Ov., Fasti VI, 571-576. Come è noto, la stesura
dei Fasti fu interrotta dall’esilio di Ovidio, voluto da Augusto per motivi mai
venuti alla luce. E’ curioso qui riportare che, secondo un autore cabalista
francese del ‘700, J.B. D’Argens de Boyer (Lettres cabalistiques, Tomi I e VI),
questo fu dovuto dall’avere Ovidio divulgato il rapporto dell’Imperatore
Augusto con un misterioso essere sovrumano, la “Silfa Hehugaste”, che scomparve
non appena scoperta (ricavo l’informazione da C. Miccinelli e C. Animato,
Commento e note a Il Conte di Gabalì di N. H. Montfaucon de Villars e G.F.
Borri, Genova, 1986, pp. 163 – 167.
[4] Si veda l’ampio e utile studio di B. Zannini
Quirini, La demenza di Numa, in “Cultura e Scuola”, XXIV, 95 (luglio-settembre
1985), pp. 124 – 134, e, dello stesso, La divinazione a Roma. La regola e le
sue eccezioni, in “Abstracta”, IV, 40 (settembre 1989), pp. 28-37.
[5] In Siberia chiamate Àyami, da distinguere con
gli spiriti ausiliari (Sywén) subordinati allo spirito protettore.
[6] Cfr. M. Eliade, Lo Sciamanismo e le tecniche
dell’estasi, I ed. italiana Milano 1953 (traduz. di Carlo D’Altavilla, alias
Julius Evola).
[7] Cfr. S. Consolato, “Gter-ma” tibetani e “cose
fatali romane”, in “Cittadella”, n.s., II, 6 (aprile-giugno 2002), pp. 14-23
(vedi p. 17). La dākini Yeshe Chogyel fu una delle due mogli di Padmasambhava,
colui che introdusse il buddhismo tantrico nel Tibet, e per giunta sua biografa
in quanto autrice del Padma-Than-Ying (Storia delle esistenze di
Padmasambhava), un libro terma o di “rivelazione” (Ed. anast. Paris, 1979). Un
altro grande Lama che ebbe relazione con le dākini fu Pema Lingpa (1450-1521).
I caratteri sciamanici di questi due guru sono stati riconosciuti al di fuori
di ogni dubbio, in particolare per Padmasambhava: soprattutto il suo cavalcare
una tigre alata femmina sino alle grotte dove sorgerà il complesso templare del
Taktshang Goemba, o “Tana della Tigre”, in Bhutan. Sulla relazione tra lo
sciamano e la tigre, cfr. Mircea Eliade, Op. cit., p. 7 e n. 1; sui due grandi
guru, cfr. i miei articoli: Pema Lingpa, lo “scopritore di tesori” e la sua
discendenza e Il grande “guru” Padmasambhava e il suo arrivo in Bhutan, in
“Arthos”, n.s., rispettivamente n. 14 (2006), pp. 34-44, e n. 18 (II 2009), pp.
360 – 367.
[8] Cfr. Fest.
434 L. : “Sabini quod <volunt somniant” vetus> proverbium… (V.B.
Zannini Quirini, La demenza di Numa, cit. p.131).
[9] Soprattutto ne Lo Yoga del sogno e la pratica
della luce naturale, Roma 1993. Si veda anche T. Wangyal Rinpoche, Lo yoga
tibetano del sogno e del sonno, Roma 1999.
[10] Pema Lingpa è in grado di decifrare l’alfabeto
magico dei manoscritti ritrovati come terton solo con l’aiuto delle dākini
(Cfr. R. Del Ponte, Pema Lingpa, cit., pp. 35 e 36) e in sogno visita il
paradiso celeste di Padmasambhava, dove studia le loro danze, le cui modalità
insegnerà ai propri discepoli. Sul “linguaggio segreto” degli sciamani,
paragonato spesso alla “lingua degli uccelli”, cfr. M. Eliade, Op. Cit., pp. 87
– 89.
[11] Cfr. Dion. Hal. II, 60, 6; Liv. I, 21, 3:
(Numa) Camenis lucum sacravit, quod earum ibi concilia cum coniuge sua Egeria
essent.
[12] Cfr.R. Graves, I miti greci, Milano 1979, p.
164. Su Carmenta, in particolare nella sua funzione di “tutrice occulta delle
formule e incantesimi bellici” ed anche dell’evocatio, cfr. l’importante studio
di M. Baistrocchi, Le tre Carmente, in “Ignis”, n.s., 1 (giugno 1990), pp. 41 –
52.
[13] Ed. Diabasis, Reggio Emilia 2008. Se ne veda
un’esauriente recensione di M.E.Migliori in “Arthos”, n.s., XII, 18 (II. 2009),
pp. 409 – 410.
[14] Cfr. Purg. X, 13-16: “E ciò fece li nostri
passi scarsi / tanto, che pria lo stremo della luna / rigiunse al letto suo per
ricorcarsi, / che noi fossimo fuor di quella cruna”.
[15] M. Eliade,
Op. Cit., p. 361.
[16] A.
Coomaraswamy, Symplegades, New York 1947, p. 486. Nella
fisica quantistica si ripropone singolarmente il concetto di “fessura” o
“finestrella”. Si veda G. Conforto, Corpo e onda. Una fessura verso altre
dimensioni, in “Abstracta”, III, 28 (luglio – agosto 1988), p. 82: “E’ stata
calcolata una dimensione tipica per ciascun corpo, insondabile agli strumenti,
che rappresenta una ‘finestra’ verso altri spazi al di là dello spazio e del
tempo..”.
[17] Cfr. Liv. I, 48, 7. Servio, trucidato dai
sicari di Tarquinio il Superbo, trascinatosi morente sino al Vicus Cyprius, fu
deliberatamente travolto dai cavalli del cocchio della figlia Tullia al Clivus
Urbius.
[18] Cfr., Eliade, Op. Cit., p. 348.
[19] L’identificazione del clivius Urbius od Orbius
di Roma con il clivus Virbius esistente ad Ariccia e, di conseguenza,
l’assimilazione di Servio a Virbio è dovuta ad E. Pais, Storia di Roma, II,
Roma 1926, pp. 134 e sgg. A me (in Dei e miti italici, Genova 1998, p. 188, n.
140) è parsa eccessiva, ma ritenuta plausibile da L. Peverelli, curatore
dell’edizione Utet di Livio (Storie-Libri I-IV, Torino 1974, p. 238, n. 48).
Come è noto, Ippolito (divenuto poi Virbio) fu ucciso da un cavallo e nel nemus
Aricinum era interdetta la presenza dei cavalli.
[20] Si potrebbe anche pensare, qui, al tema della
“caccia selvaggia” o Wildes Heer, che è in relazione, appunto, col mondo dei
morti. L’argomento fu trattato anche nella corrispondenza fra R. Guénon e J. Evola
nel 1933.
[21] Vedi quanto ne dice L. Magini, Op. Cit., pp.
155-156, che riporta il brano completo e riproduce la stessa sors.
[22] Nei resoconti inerenti agli sciamani
euroasiatici, la Àyami o “sposa celeste” risulta avere un rapporto “imperioso”
con il suo protetto. Talvolta lo importuna, pur proteggendolo, e gli crea delle
difficoltà (cfr. M. Eliade, Op. Cit., p. 77). Ne sembra il caso di Fortuna con
Servio, ma non così invece di Egeria con Numa.
[23] La protezione accordata allo sciamano dalla
“sposa celeste” ricorda la funzione assolta da certe fate o semi-dee
nell’istruzione e iniziazione di certi eroi nei racconti mitici dell’antichità,
ma anche del Medioevo. Tutto ciò riflette certamente remote concezioni legate
alla fase “matriarcale” della civiltà euroasiatica e mediterranea, sino a
risalire all’immagine archetipica della Grande Madre degli animali (cfr. M.
Eliade, op. cit., p. 78).
[24] Cfr. J.J.
Bachofen, Die Sage von Tanaquil, Heildelberg 1870. E’
merito di J. Evola averne tradotto diversi brani (fra cui tutta l’introduzione)
nell’ Antologia bachofeniana da lui curata nel 1949 (ora ristampata [2009]
dalle Edizioni di Ar di Padova). Tuttavia il complesso dell’opera rimane
inedito in italiano.
[25] Fortuna è l’equivalente della grande dea
pelasgica – e quindi etrusca – protettrice anche delle classi servili, in ogni
caso di quelle più umili. Ciò rende più comprensibile la scelta come Re di un
ex-servo. Raffigurata come bendata, Fortuna parrebbe arbitraria nelle sue
scelte e tuttavia, proprio in virtù della sua ben nota instabilità, assai
prevedibile: non poteva fornire al Regno di Servio la sicurezza di una fine non
violenta, in linea, pertanto con l’atteggiamento delle Potnie mediterranee
reclamanti la fine fisica del “loro” Re, ormai vecchio e indebolito (qui
ritorna l’immagine del Rex Nemorensis). Diverso sarà il caso (e la sua
tranquilla fine) di Numa. Ma il destino di Servio s’inserisce in un contesto
fortemente caratterizzato dal “fatalismo” etrusco (di cui sarà specchio la
concezione ciclica dei saecula, destinata ad assumere grande rilievo anche a
Roma con i Ludi Saeculares), mentre quello di Numa risente della componente
“magica” sabina. Numa, in altri termini, è uno sciamano “attivo”: è in grado
(pur con l’aiuto di Egeria) di controllare e talvolta di determinare certi
eventi fuori della norma. E’ in questo figura assai simile a certi “Maghi-Guru”
del mondo himalayano ed è il prototipo più significativo del romano Pontifex
Maximus: ponte in equilibrio, ben controllato, fra due mondi che solo talvolta
si incontrano.