mercoledì 7 novembre 2012

Astronomia in Roma antica: il ciclo di Saros e le feste delle Feriae Martis e di Anna Perenna



Una data eclisse può essere visibile in una certa regione geografica e in un certo giorno dell'anno qualora il Sole, la Luna e la Terra ritornino dopo un certo tempo ad allinearsi nello stesso modo nello spazio; questo si verifica ogni 6585 giorni solari medi corrispondenti a 18 anni e 11 giorni di tempo medio. Tale ciclo, detto Ciclo di Saros è tale per cui la sequenza delle eclissi si ripete nello stesso ordine del ciclo di Saros precedente.
Il termine "Saros" è di origine babilonese, popolazione ai cui sacerdoti-astronomi è accreditata la scoperta di questo ciclo. La spiegazione del perché esiste questa ciclicità nel succedersi delle eclissi è molto semplice se si prendono in esame le cinque periodicità fondamentali del moto lunare. Va comunque notato che almeno due dei cinque cicli lunari, il Sinodico e il Siderale, erano probabilmente già noti all'uomo del Neolitico e dell'età del Bronzo in Europa, ma anche in altre aree del mondo antico.
Tra il primo di Marzo del primo anno del ciclo numano e il 15 Marzo del 19° anno passano 6.585 dies, e le feste che cadono nei due giorni segnano le ricorrenze di due concepimenti e di due eclissi di Sole.
Il primo di Marzo del primo anno cade l’anniversario del concepimento di Romolo, con le due contemporanee congiunzioni, la terrestre di Marte e Rea Silvia e la celeste di Sole e Luna.
Quest’ultima, provoca l’eclissi totale di Sole che dà inizio al tempo astronomico e al ciclo numano.
Il 15 Marzo del 19° anno – è trascorso un ciclo di Saros – cade l’anniversario di un altro concepimento divino:

Alle idi si festeggia il concepimento di Anna Perenna

scrisse Ovidio, il quale sa tante cose sulla Dea:

…su chi sia questa Anna, dal momento che si sentono tante voci, mi propongo di non dimenticarne nessuna.

Così il poeta inizia a raccontare una lunga serie di storie diverse , nel complesso solo di contorno, fino a che, per spiegare il motivo della volgarità cantate dalle ragazze in occasione della festa, arriva al dunque:

Ora mi resta da riferire come mai le fanciulle cantino canzoni oscene – perché davvero si radunano e cantano certe canzonacce. Anna era dea da poco, e Marte Gradivo viene da lei, la prende da parte e le parla così: “sei festeggiata nel mese a me dedicato, io ho unito il mio momento al tuo; la mia più grande speranza dipende dai tuoi buoni uffici.
Dio armato, per l’armata Minerva io ardo d’amore, e da tanto tempo do alimento a questa ferita.
Dunque, fai in modo che noi, divinità di gusti simili, ci si congiunga; a te si addicono questi ruoli, cara vecchia amica”.
Aveva detto. Lei inganna il dio con una vana promessa e ne prolunga la folle speranza con ambigui diversivi; e quando più lui la incalza, gli dice, “Missione compiuta”.
Si è convinta a fatica s’è arresa alle preghiere.
Le crede l’innamorato e prepara il talamo; vi si conduce Anna, col volto velato, come una sposa novella.
Mentre sta per baciarla, Marte improvvisamente riconosce Anna; e il dio beffardo è scosso tra vergogna e ira.
Tu fai un tiro mancino all’amante, tu novella dea, sei cara a Minerva, e non fu mai per Venere cosa più gradita di questa.
Perciò si cantano antichi frizzi e lazzi osceni, divertiti dall’inganno di Anna al grande dio.

Il racconto mostra come Anna Perenna, frapponendosi tra l’ardente dio Marte e la concupita Minerva, ripeta sulla Terra quanto compiono gli astri in cielo: qui Marte personifica l’elemento virile e rappresenta il Sole, sorgente ignea infinita e sempiterna del seme, e Minerva personifica l’elemento femminile e rappresenta la Luna, serbatoio acqueo, non meno infinito e sempiterno dell’ovulo.

Plutarco, (de facie) spiega che la Luna “si chiama Glaucopide” perché con una eclissi ormai prossima all’alba assume il colorito bluastro ceruleo che è la ragione principale dell’epiteto Glaykopis, “occhiazzurra” attribuitole dai poeti…e per amore del Sole essa è mossa a percorrere la sua orbita e a congiungersi con lui nello spasmo di accoglierne l’essenza fecondatrice.

Negli innumerevoli tentativi nei quali l’elemento femminile – Anna o Minerva che sia – si sottrae al rapporto con l’elemento maschile rappresentato da Marte, sono raffigurate le innumerevoli congiunzioni o opposizioni – lune nuove o piene che siano – in cui i due luminari maggiori vengono in rapporto tra loro senza che si verifichi l’eclissi.
Quando infine arriva il momento in cui, percorrendo le rispettive orbite, Sole e Luna sono giunti entrambi in prossimità dei nodi lunari e si può produrre l’eclissi, ecco che nel linguaggio mitico – tra Marte e Minerva – s’interpone Anna Perenna; alla quale corrisponde – nel linguaggio astronomico – la “Terra piena” che interponendosi tra Sole e Luna, oscura la luna piena dell’eclissi lunare.
Perciò quando il poeta scrive che la novella dea: “Secondo alcuni è la Luna che con i mesi completa il circuito del tempo”, usa il termine annus nel senso di “circuito di tempo”, ossia nell’accezione più antica, ricordata anche da Macrobio: “ in realtà, come l’anno lunare è il mese, perché la luna in poco meno di un mese percorre l’intero zodiaco, così l’anno solare va calcolato sul numero di giorni che impiega a tornare allo stesso segno da cui è partito; quindi questo è chiamato il corso di un anno, e lo si considera grande, mentre quello della luna è l’anno breve…dunque, anche Ateio Capitone ritiene che il nome “anno” derivi dal circuito del tempo.”

In effetti il 15 Marzo del 19° anno del ciclo numano, a 6585 dies dall’inizio, la luna completa il circuito di tempo costituito dal ciclo di Saros.
Però quel giorno la luna è nuova – e non piena, come suggerirebbero le idi segnate sul calendario – e l’eclissi è, ancora, un eclissi di Sole, che cade nella ricorrenza del concepimento di Anna Perenna, e che ripete quella del primo di Marzo del primo anno, dando via al nuovo ciclo di Saros.

Nel momento in cui nell’alto dei cieli si chiude un ciclo astrale e se apre un altro, successivo, su questa bassa terra si chiude un ciclo vitale: il ciclo dell’adolescenza, al quale segue il ciclo della gioventù…è adesso (15 Marzo) che le vergini “si radunano e cantano certe canzonacce” – tipica operazione pre-matrimoniale di addio al nubilato – e che il sangue della loro ultima mestruazione prima della consumazione del matrimonio viene versato nel frutteto sacro alla dea, che si trova lungo la via Flaminia, poco fuori l’attuale Porta del Popolo. Tale è l’indicazione che da Marziale: “anche perché di sangue verginale gode il bosco ricco di frutti di Anna Perenna”
(Epigrammi 4,64)
nella quale – volendo – si può scorgere un malizioso accenno al “boschetto” femminile e ai “frutti” che col tempo esso apporterà a chi vi si addentra.
E’ adesso, per la festa di Anna Perenna, che si chiude il ciclo vitale che dalla nascita porta all’età feconda e si apre il ciclo, di sicuro non meno vitale, che dall’età feconda porta alla nascita di una nuova generazione di uomini. 


TESTO di Leonardo Magini : “ASTRONOMIA ESTRUSCO-ROMANA” L’ERMA di BRETSCHENEIDER 2003

venerdì 21 settembre 2012

Appartenenza


Riporto un estratto dall’introduzione, scritta dall'autore stesso, del saggio “Il divino Giamblico” di Beniamino Massimo Di Dario, edito dalla casa editrice “Ar”, (prima edizione maggio 2012) del quale consiglio vivamente la lettura.

Benché personalmente riconosca legittimità metafisica al cristianesimo, assoluta veridicità al sostanziale messaggio rinnovatore di Amore, lo stesso, ritengo il Cattolicesimo una sapiente impostura, come eclissi malevola e quanto mai duratura sovrappostasi alla luminosa Rivelazione originaria, che segnò l’inevitabile rinnovamento dei tempi.
La Chiesa Cattolica appropriandosi indebitamente – manu militari – dell’antica eredità sapienziale se ne servì come pregiata stola con cui ammantare il mistero trinitario, frutto di una speculazione raffinata che è, in un certo senso, la depravazione della riflessione platonica e neoplatonica.
I teologi vaticani, stesero pazientemente sul loro telaio secolare i tessuti preziosi ma laceri dell’antica sapienza, e seppero abilmente ritesserla ai loro paramenti e cerimonie da farli sembrare come nuovi, eliminando al grido dell'eresia tanto i cristiani di altre confessioni quanto i seguaci della religione Avita.
L’abilità con cui la Chiesa di Roma ha consolidato il suo immenso potere, accrescendolo, di fatto, ben oltre l’eredità carpita all’impero dove maturò, rivela una disposizione dei suoi solerti e grigi ministri assolutamente diabolica.


Non è difficile, allora, intuire perché accostarsi a Giamblico oggi.
L’età attuale, ci sia lecito rilevarlo, prospetta non poche analogie con i tempi del Calcidese e con il Tardoantico in generale.
Dissolvimento, allontanamento dall’Origine, snaturamento caotico: l’intero esistente frana nell’indefinito.
Le “emozioni forti” scuotono le estremità di esistenze intorpidite: deriva verso il senza-forma, caduta.
Processo di caduta, a nostro avviso, spiraliforme. Sintesi di linearità e circolarità in cui ogni momento storico ha sopra di sé quello che gli è più affine. Così, nel processo discensionale, l’epoca attuale viene a collocarsi sulla medesima linea dell’età tardoantica ma, di conseguenza, su un piano ben più basso.

Non v’è chi possa negare che in Occidente, nel corso dei secoli così come oggi, non pochi – e qui risiede il fulcro della questione – abbiano sentito il dover ricercare le proprie radici nel mondo e nella tradizione classica. Corollario di tale percorso, sovente, è stato un crescente senso di estraneità alla religione venuta a predominare in questa parte occasiva del mondo (cattolicesimo Ndr).
Perché, e sia detto apertis verbis, coloro i quali della tradizione antica sono stati gli oppositori e gli antagonisti non possono ritenersi ad alcun titolo, come scritto in altra sede, né i depositari, né i successori.
Dunque per vie di rado coincidenti, con esiti e intenti incerti e assai diversi, in maniera spesso confusa e approssimativa, animi dalle nature più disparate si sono volti al pensiero, alla tradizione, ai miti e agli Dèi del mondo antico. Perché? Qualsiasi discorso sulla “non congenialità” della religiosità abramitica o sulla non praticabilità delle religioni d’Oriente, ammirate e proprio in quanto tali distanti, è destinato a cadere perché da ragione solo di una parte, ed esigua, del “fenomeno”.
Lo sguardo va invece appuntato sull’origine stessa di questa “chiamata”, sulla natura di vocazione.
La realtà, innegabile, ci dice dell’incessante incedere di anime e di menti che attraverso il corso dei secoli hanno avvertito come la propria natura fosse estranea al presente e come essa invece, rinvenisse la propria centratura nel mondo eclissatosi all’inizio dell’era cristiana.
Nel presente post-naufragio ogni Odisseo è destinato, senza il nostos verso l’Origine, a rimanere un Nessuno.
Cosa ravvisa il senso comune in questa pre-disposizione se non disperato anacronismo, romantica adesione a un passato idealizzato, vano tentativo di fuga all’indietro? Ma il senso comune è cristianocentrico, e si basa su un’idea del tempo – poi mutuata dallo scientismo – lineare, costruita su una meta prestabilita e un progresso indefinito da punto a punto.
L’animo umano, però, non è tenuto ad essere cristiano, né lo è l’intelletto.
Poste queste premesse, l’idea platonica che le anime si incarnino per cicli continui e sempre identici a sé stessi fino allo scioglimento dai legami della generazione è al medesimo tempo chiave di volta per spiegare il fatto e maglio per divellere il senso comune.
Esistono “anime antiche” – per prendere a prestito un’espressione dall’encomiabile trasposizione cinematografica del De Reditu operata da Sandro Bondì – ed esistono vie tracciate in illo tempore.
Animadverunt: queste anime avvertono – così come hanno avvertito e, possiamo dircene certi, continueranno ad avvertire – il diuturno richiamo ad andare nella direzione impressa.
L’impressione – e ancora una volta si ponga mente al senso latino dell’impressio – ricevuta all’inizio dei tempi risveglia il desiderio del ricongiungimento all’Origine, l’aspirazione alla conversione, platonicamente intesa, la nostalgia: algos per la ricerca del nostos.
Un anelito che né l’annottare incipiente dell’Età di Mezzo né la definitiva tenebra della modernità hanno avuto il potere di estinguere.
Ed è insieme un percorso che non può essere né inattuale, né morto, né anacronistico: esso non è stato né sarà, proprio perché è, sempre.
Il prima o poi non riguardano l’Anima.
Così, a coloro che si sentono vocati, la dottrina di Giamblico, se non può additare – perché già ardua ai suoi tempi – una via, può almeno essere viatico.



  

martedì 18 settembre 2012

Lo spirito di Giacomo Boni (1859 - 1925)


Restituì una profondità tangibile all’epica antichità di Roma, riportò alla luce il Lapis Niger posto sotto la più nobile arteria dell’Urbe, cosa si può dire sfuggendo ad ogni retorica dell’uomo Giacomo Boni, in lui lo studioso era subordinato al Veggente, una qualità assolutamente rara in età moderna.

Là dove tutto pareva scoperto (il Foro romano) riapparvero vestigia commoventi di vita semplice.
Fra molte statuine greche tornate in luce dai pozzi, un giorno Boni trascelse un bucchero nero graffito da mano inesperta e lo mostrava agli amici dicendo: “Che sia l’opera d’una piccola Vestale?”
Riapparvero le bianche pareti dipinte a sottili tralci bruni, e i pavimenti a tessere marmoree, premuti un giorno “dalle perfettissime donne sbocciate appena o maestose per fiorente calma bellezza”.
In una stanza con due forni rimanevano ceneri dell’ultimo fuoco e frammenti fittili che Boni identificava coi “Vasa Numae”.
Altri vasetti rituali erano spalmati di pece, che, arsa, spandeva ancora aroma di pino.
Un frammento di focaccia abbrustolita, a forma di zattera, rievocò a Boni lo janual sacrificale, che Catone voleva offerto al sempiterno principio di ogni umana ideazione.

Cosi scrisse rievocando quella scoperta: “Nello scoprire il forno della Casa delle Vestali e nel trovarvi tanto vasellame rituale la cui tradizione varca i confini della civiltà latina, ho sentito istintivamente che non avevo a che fare con un semplice forno da pane”.

Un giorno, sorpreso nel Foro da un gran temporale, si rifugiò nella Domus.
La pioggia fischiava a liste nell’aria, con la forza sonora e disperata dei brevi acquazzoni romani.
Lampi pallidi tagliavano la piccola spelonca dove Boni sostava, ardendo in cuor suo di essere travolto da quella bufera e di perdersi negli elementi, in una comunicazione suprema col Divino.
“Ho gustato la morte” disse a chi lo vide balzar fuori, grondante come la figura del Temporale nella colonna Aureliana.

Il suo animo era ancestralmente congiunto al sentimento della vita arcaica: un Genio prenatale presiedeva al suo destino umano.
L’intuizione felice gli fece scoprire le più antiche sepolture dei primitivi abitatori del Colle Palatino, in cui erano deposte semplicissime suppellettili cariche di valenza rituale e che solo l’animo sensitivo può cogliere in tutta la loro radianza poetica e magica.
Fra gli inumati v’erano dei bambini piamente composti in bare di quercia. Nelle ciotole rimanevano avanzi dei chicchi d’uva, estrema offerta di tremanti mani materne.

Boni s’accostò a quelle reliquie con profonda pietà umana.
Toccava finalmente alle sacre origini di Roma e le trovava quali le aveva presagite e sognate: umili e forti.

Esaminava con profonda attenzione un vaso d’argilla ancora umido e limaccioso.
Il suo sguardo chiaro e cangiante si oscurava nello scrutare su quella povera opera umana qualche indizio d’un passato misterioso e ridiventava di un azzurro pallido quando rinsaldava l’intuizione all’impronta rituale dei sacri oggetti ritrovati.

Durante una malattia, visse un fenomeno di deliquio che così descrisse: “ Sentivo di sfuggire dal corpo e d’innalzarmi sopra di esso, a cui ero avvinto solo da un invisibile filo.
Avevo coscienza della libertà estatica.
Alla fine con mio dolore, fui respinto indietro nell’esistenza.
Pensai che ci fosse altro lavoro da fare per me. La prossima volta che me ne sfuggirò via sarà per non più tornare”.
La sua tomba è posta sulla sommità del Palatino.



mercoledì 4 gennaio 2012






















Siamo moderni: “folla indistinta che nulla distingue”.
Prevalentemente non sappiamo interpretare il nostro desiderio, non facciamo altro che ciondolare da uno stimolo all’altro e avendo smarrito l’intimo orientamento siamo davvero telecomandati, teleguidati ad inseguire questo o quello, abbindolati da imitazioni involute della bellezza.
Forsennati nell’appagare fisime e capricci, frustrati nel non riuscirvi, i nostri desideri inferiori sono massimamente esaltati e così intensi e tanto profondamente innestati che niente in questo sotto-mondo fabbricato di cose artefatte potrà mai soddisfarli.
Allora ci rassegniamo alla ferocia, da noi perseguita o da altri attorno a noi, assuefatti dalla smania profana che desidera questo e quello fino a quando arriva il momento in cui ci ritroveremo nel migliore dei casi vecchi e stanchi, privi di reali risposte e messi brutalmente da parte da quella stessa disumanità di cui siamo stati ingenui fautori nostro malgrado.
In realtà abbiamo in noi tutto ciò che ci occorre e dovremmo esserne consapevoli.

Per seguire la via spirituale è necessario interiorizzare il senso della propria epoca e mai come oggi avvertire la necessità di seguire la via spirituale implica il senso di una inquietante lacerazione dovuta al carattere assolutamente anomalo del tempo attuale.
La sovversione Illuministica culminata nel recentissimo vuoto concettuale, un “vuoto artificiale”, assolutamente funzionale alle dinamiche del Nuovo Ordine Sintetico Globale, ha conservato fin dai suoi albori nel secolo XVII° un orientamento culturale totalmente riduttivista d'ogni esperienza umana che l'ha preceduta e che applica al significato stesso della poesia e filosofia antiche, il cui spirito è considerato del tutto avulso dall’attuale contesto sociale.
L’attacco diretto allo spirito dei valori Aviti è stato mosso proprio agli albori di quella rivoluzione (involuta) industriale, che nella mercificazione di una realtà desacralizzata intendeva dilatare in una misura abnorme le proporzioni del suo profitto auto-divorante.
La manomissione del patrimonio genetico delle sementi e la stessa progressiva manipolazione chimica del cielo non sarebbero state possibili senza l’intromissione di questo vuoto concettuale – artificiale che attraverso l’alibi del progresso legittima l’annichilimento della vita, di fatto consegnata al dominio di forze oscure.
Non poteva instaurarsi tale colossale parodia se prima non veniva sovvertito l’insieme dei caratteri valoriali che sono propri ai simboli della Scienza Sacra, assieme all’impoverimento assoluto del fare artigianale.
Lo spirito poetico originario, benché diversifichi le sue manifestazioni attraverso la storia, pur affievolito è da sempre estraneo alla soluzione concettuale dei grandi enigmi dell’esistenza e identifica nella sola risposta logica (la sola razionalità discorsiva-rappresentativa) una pura contraffazione e mortificazione del principio aureo dell’essere, che è l’ispirazione.
La poesia è il puro fondamento etico del Cosmo ed esserne partecipi voleva e vuol dire purificare dapprima l’anima, cui si rivela l’origine trascendente del mondo e l’invito a superare se stessi nella conoscenza dell’immateriale attraverso una contemplazione attiva (suas artes) dei misteri della vita.
L’odierno regime industriale non favorirà mai questo necessario risveglio interiore, anzi è ormai palese, considerando l’evidenza generale dei fatti, che un tale stato di cose ha fatto e farà di tutto per estirpare la memoria sensibile dalle nostre coscienze.



E’ anche evidente che il corpo sia la maschera dell’essenza che siamo, troppo spesso confuso con l’identità illusoria dell’ego inferiore immedesimato nella parte recitata in questo teatro del mondo in cui sovrappone l’identità psichica (suo fervore) alla natura spirituale.
L’unica via è nel risveglio del desiderio di puro amore.
Amore neoplatonico, che è una più vigorosa visione delle cose.
E’ il risveglio del desiderio di consapevolezza, di ritrovare il nesso tra la memoria ancestrale delle origini e il presente avvolto nelle densità di un Tempo il cui Ciclo attuale è propriamente definito dalla Tradizione come tenebroso.
Tale auspicabile risveglio dell’essere inevitabilmente manifesterà davanti al percorso esistenziale un bivio, diramato su due possibili direzioni: in ascesa se i nostri atti sono diretti all’essenziale elemento divino, desiderando ardentemente di vivere secondo intelletto e virtù, perseguendo il bene attraverso la salute dell’animo, ovvero, decongestionato progressivamente dai rancori, le morbosità e le diverse afflizioni. Altrimenti, inforcando il sentiero dell’inesorabile discesa se i nostri atti sono diretti ad altro dall’autentico sé, al corpo volgarmente inteso, all’assolutizzazione dell'elemento mortale e animale vivendo secondo il senso di un nichilismo avvilente, innescato dal fatto di voler cedere ad ogni fisima e basso piacere, anche col solo pensiero, e realizzare in questo agire il nostro male attraverso il vizio, la turpitudine e l’ingiustizia.